Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica e anche del Csm non c’è più, ma sarà una coincidenza se a pochi giorni si sono aperti i cassetti e il “corpo estraneo” è venuto fuori: la pratica Loris D’Ambrosio. Superato l’imbarazzo del ricordo di qualcosa di terribile che aveva portato alla morte per infarto, quasi un suicidio per istigazione, il consigliere giuridico del Presidente, la pratica è stata archiviata, con fredda indifferenza. Indifferenza di almeno tre ministri guardasigilli, a partire dal 2017, e cioè Orlando, Bonafede e Cartabia, che hanno l’hanno tenuta nel cassetto. Ma non particolare speditezza e attenzione anche da parte dello stesso Csm. Che comunque l’ha archiviata.

La decisione del Csm di negare a D’ambrosio il riconoscimento di essere stato “vittima del dovere”, pone due rilevanti problemi e lascia sul terreno, di conseguenza, due ombre che sarà difficile cancellare. La prima riguarda lo stesso ruolo del Csm e la sua capacità di essere laico e “politico” pur senza ricadere in quella lottizzazione e guerra tra correnti che avevano caratterizzato un certo passato. Cioè quel lungo periodo di cui fu protagonista tra gli altri Luca Palamara, che ha saputo ben raccontarlo per poi prenderne le distanze, ma che ha pagato per tutti finendo radiato dalla magistratura. Essere diversi da quel che furono i colleghi, magistrati e laici d’un tempo, non può però significare che si debba cadere da un eccesso di politicità a un eccesso di cinica burocratizzazione. Come a dire che, se non ci è più concesso di sguainare ogni giorno spade e spadoni, di impallinare il politico che ci sta antipatico, di esercitarci allegramente nella giurisprudenza creativa, allora noi usciamo dal cono della politica e ce ne laviamo le mani.

Che Loris D’Ambrosio sia stato una vittima è difficile da negare. Poi diremo di chi e di che cosa. Limitiamoci per ora al fatto. Che riguarda una famiglia che ha perso d’improvviso, non per un infarto capitato per caso, ma per un crepacuore determinato, come disse Napolitano, da “una campagna e irresponsabile di insinuazione ed escogitazioni ingiuriose di cui era stato pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità”, un uomo fino a poco prima rispettato e ammirato. Una famiglia che chiede gli venga riconosciuto il titolo non di eroe ( che avrebbe meritato) ma di caduto sul lavoro, vittima del dovere o “equiparato vittima del dovere”, come previsto dalla legge 206 del 2004. Possibile che tre diversi ministri di differenti maggioranze politiche siano stati indifferenti?

Grave anche il fatto che improvvisamente gli eroi della giurisprudenza creativa che affollano il mondo delle toghe dai luoghi più periferici del mondo giudiziario fino allo stesso Csm si siano trasformati in freddi burocrati ligi alle virgole e incapaci persino di comprendere il significato in lingua italiana del termine “equiparato”. Così la mancanza di quel nesso di causalità che dovrebbe concatenare gli eventi e che così spesso sono gli avvocati difensori a denunciare nei processi penali, al Csm è diventata così palese da schierare laici, togati, di destra, di sinistra e agnostici fino a liberarsi nel suo nome di quel fardello che la presenza di Napolitano in vita rendeva imbarazzante.

Quando la norma definisce vittime del dovere i dipendenti pubblici deceduti o rimasti invalidi “in conseguenza di eventi verificatisi nel contrasto ad ogni tipo di criminalità, nello svolgimento di servizi di ordine pubblico” eccetera, dobbiamo o no interpretare? È quel che magistrati di ogni livello praticano tutti i giorni, e che noi spesso critichiamo quando siano palesi gli eccessi. Ma ieri, al plenum del Csm e già due giorni prima nella quarta commissione, non un’ombra di dubbio pare aver solcato la fronte dei consiglieri.

Con l’eccezione di Margherita Cassano, prima presidente della Cassazione, che non voterà a favore della delibera, manifestando “fortissimi dubbi e perplessità” e porrà la domanda: ma siete sicuri che non ci sia stato un legame tra i due eventi? Cioè, interpretiamo, tra il randellamento costante e preciso sul corpo e sullo spirito di D’Ambrosio, colpevole di aver risposto al telefono mentre chiamava non il capo dei corleonesi, ma un ex ministro nonché vice del Csm di nome Nicola Mancino, e poi la perdita della vita. E qui veniamo alla seconda ombra che la decisione di ieri del Csm lascia sul terreno. Un non- detto alto come un grattacielo.

Il processo “trattativa Stato- mafia”, che non è stato solo la bufala del secolo, ma qualcosa di molto più grande e pericoloso. Perché Loris D’Ambrosio, quando ha risposto a quella telefonata, che era lo sfogo di un personaggio inquisito ed esposto a ogni tipo di violento sberleffo, ma poi assolto, si è messo involontariamente dall’altra parte della barricata. Quella dei “nemici” di chi quel processo aveva istruito e voluto. Quella in cui c’erano tutti gli innocenti di quel processo, da Mancino a Mannino, dal generale Mori fino a Marcello Dell’Utri. E ha automaticamente commesso il reato di lesa maestà. Così le bastonate sono arrivate anche addosso a lui, e fino al Presidente Napolitano, costretto a sollevare conflitto di attribuzioni alla Corte Costituzionale.

Una ferita che evidentemente è ancora aperta, nonostante su quel processo i giudici abbiano detto la parola definitiva, stabilendo che era solo un colossale imbroglio. Un riconoscimento da parte del Csm alla memoria di una toga che era senza macchia e fu trattata come sporca da quel carrozzone mediatico- giudiziario di allora, sarebbe stato un gesto politico importante. E avrebbe chiuso una storia. È prevalsa l’ignavia, prima del mondo politico, e poi del Csm, che l’ha travestita da virtuosa applicazione della norma. E rimangono ombre sul terreno, dove la bufala- trattativa pare non morire mai.