È forse il magistrato che più di tutti, negli ultimi anni, ha inteso il principio dell’autonomia come difesa della giurisdizione. Giovanni Canzio ha testimoniato il coraggio della sua visione con un mandato da primo presidente di straordinaria capacità innovativa. Non ha mai mancato di trasferire lo stesso spirito dalla Cassazione al Consiglio superiore della magistratura. Dove ha riproposto la sua ambiziosa concezione di “autonomia e indipendenza”: non più il perimetro invalicabile entro cui tenere isolati giudici e pm, ma un sistema tanto autonomo quando “dialettico”, in cui va riconosciuto il ruolo dell’avvocatura, «co- protagonista» del processo. Canzio traduce ora quest’apertura in una valutazione del tutto positiva sulla «proposta del Cnf» di «inserire in Costituzione un esplicito riferimento alla figura dell’avvocato».

In passato, alla proposta di inserire in Costituzione un richiamo esplicito alla libertà e alla imprescindibilità dell’avvocato, si è replicato che la sua funzione è già affermata all’articolo 24 della Carta. Cosa si può ulteriormente ribattere a tale osservazione?

Il Titolo IV della Costituzione, coerentemente con la sua intitolazione “La Magistratura”, non contiene espliciti riferimenti alla professione di avvocato. Indizi, ma solo impliciti, del rilievo costituzionale del ruolo tecnico dell’avvocato e dell’alta considerazione dell’attività forense si rinvengono altrove: nell’articolo 24, che ha riguardo soprattutto all’effettività di tutela del diritto inviolabile della persona a difendersi in giudizio; negli articoli 104, comma 4, 106, comma 3, e 135, comma 2, che consentono di attingere dalla categoria degli avvocati una quota dei soggetti eleggibili a cariche di preminente rilievo, quali quelle, rispettivamente, di componente del Csm, consigliere della Corte di Cassazione e giudice della Corte costituzionale. Un decisivo spunto di riflessione a favore dell’enunciazione in Costituzione della funzione dell’avvocato è offerto dalla formulazione dell’articolo 111 sul “giusto processo”, come modificato dalla legge costituzionale del 1999. La norma, nel sancire al secondo comma che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità” e nel rafforzarne la connotazione dialettica, rende indispensabile, salvo limitatissime eccezioni, la difesa professionale qualificata. Nel riconoscere che il difensore costituisce il necessario tramite per la rappresentazione al giudice, “terzo e imparziale”, della situazione fattuale e giuridica della parte, così da consentire a questi di amministrare la giustizia nel rispetto delle regole e delle garanzie del processo, si attesta l’insostituibile centralità della funzione dell’avvocato nel ruolo di co- protagonista della giurisdizione. In tale ottica va apprezzata la proposta del Cnf, veicolata in un apposito disegno di legge costituzionale, di inserire in Costituzione un esplicito riferimento alla figura dell’avvocato e al principio di indipendenza e libertà della professione forense.

In un suo recente scritto lei ha proposto un richiamo costituzionale alla funzione dell’avvocato in una forma molto vicina a quella inserita nel ddl da poco presentato al Senato.

Nel rispetto del rigore semantico dello stile letterario della Costituzione e al fine di evitare uno squilibrio di peso fra le diverse articolazioni della mirabile architettura dell’articolo 111, la riforma, a mio avviso, potrebbe realizzarsi mediante l’innesto, alla fine del secondo comma, della seguente disposizione, densa nel contenuto ma leggera nella forma: “Salvo i casi espressamente previsti dalla legge, nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati, i quali, al fine di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, esercitano l’attività professionale in condizione di libertà e indipendenza”.

Lei ha anche ricordato come nella Costituente sia stato Piero Calamandrei, un avvocato, a volere con forza l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. È evidente che quella particolare élite rappresentata insieme da magistratura e avvocatura resta la più consapevole custode del valore di una giurisdizione autonoma. Ma se oggi dovesse immaginare una strategia comunicativa per trasferire tale consapevolezza da quell’élite all’opinione pubblica, cosa suggerirebbe?

Si deve alla ferma e illuminata determinazione dell’avvocato e giurista Piero Calamandrei l’elaborazione per l’Assemblea costituente della “Relazione sul potere giudiziario e sulla suprema corte costituzionale”, nella quale erano illustrati i capisaldi della nuova concezione dell’ordinamento giurisdizionale dopo la caduta del regime fascista, con particolare riguardo ai valori dell’indipendenza e del governo autonomo della Magistratura. In un discorso del 22 maggio 1946 Calamandrei, artefice del disegno costituzionale sulla Magistratura, ribadiva: “Il principio della indipendenza del potere giudiziario deve essere praticamente attuato mediante l’autonomia amministrativa della magistratura. Ormai è comunemente riconosciuto che l’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo rimane un voto puramente platonico, fino a che il potere esecutivo anche se tecnicamente sprovvisto di ogni diretta ingerenza sulla funzione giurisdizionale, conserva però una ingerenza anche diretta sulla carriera dei magistrati. Cioè sulle loro nomine, promozioni, trasferimenti, assegnazioni di incarichi e di uffici direttivi. Se il potere giudiziario deve essere veramente indipendente, com’è il potere legislativo, bisogna che i componenti dei suoi organi, al pari di quelli che compongono gli organi legislativi, non dipendano come impiegati del potere esecutivo”. Nella Prefazione alla seconda edizione dell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato,

Calamandrei avvertiva peraltro: “In realtà l’avvocatura risponde a un interesse essenzialmente pubblico altrettanto importante quanto quello cui risponde la magistratura: giudici e avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente fedeli dello Stato, che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione. Qualsiasi perfezionamento delle leggi processuali rimarrebbe lettera morta, là dove, tra i giudici e gli avvocati, non fosse sentita, come legge fondamentale della fisiologia giudiziaria, la inesorabile complementarità, ritmica come il doppio battito del cuore, delle loro funzioni”.

Ecco un architrave del pensiero giuridico in cui si coglie quella distanza eccessiva tra la consapevolezza della “élite” e quella di gran parte dei cittadini. Ma un simile insegnamento proviene anche dal presidente Mattarella quando definisce la giurisdizione «decisiva per la qualità e per lo sviluppo della nostra vita democratica» . Una centralità che va estesa anche all’avvocatura?

Dal nobile insegnamento di Calamandrei traggo il fermo convincimento, per un verso, che le ragioni fondanti e gli equilibri istituzionali del disciplinamento costituzionale della giurisdizione hanno una valenza attuale e vanno preservati, nella consapevolezza che si è in presenza di un nodo nevralgico dei rapporti fra i poteri dello Stato. Per altro verso, ritengo che il progetto di esplicita condivisione in Costituzione della missione di giustizia e dell’organizzazione della giurisdizione da parte, insieme, della Magistratura e dell’Avvocatura, nel reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni, ne rafforzerebbe l’indipendenza e l’autonomia rispetto al potere politico. Principio, questo, che non va dato affatto per scontato o irreversibilmente acquisito una volta per tutte nella storia di una Nazione, come talune recenti ( contro) riforme costituzionali approvate in altri Paesi, ad esempio in Polonia o ancor più tragicamente in Turchia, stanno a dimostrare. Sono convinto che l’una sarebbe sinergicamente custode e garante dell’indipendenza dell’altra, nell’unità della cultura della giurisdizione che deve accomunare il giudice, il pubblico ministero e l’avvocato. Ne risulterebbe accresciuta l’autorevolezza e la legittimazione nella società, insieme con la fiducia dei cittadini nella giustizia e nell’ordine democratico, il cui stato di salute è direttamente proporzionale alla qualità e alla forza dei principi che fissano il disciplinamento della giurisdizione in uno Stato di diritto.

Il riconoscimento del principio potrebbe davvero riverberarsi nella “consapevolezza diffusa”?

Vede, le prerogative d’indipendenza e autonomia dei magistrati e degli avvocati, perché non siano considerate come un ingiustificato privilegio di una “casta” di notabili, debbono coniugarsi con il pieno dispiegarsi della disciplina dei rispettivi doveri e responsabilità e con la reale efficacia della tutela dei diritti della persona. L’efficienza della giurisdizione va intesa come “servizio” e costantemente perseguita. Come pure, superando le manifestazioni di auto- referenzialità registrate in passato, si va facendo strada l’idea che è necessario implementare la comunicazione istituzionale dei protagonisti della giurisdizione nei rapporti con i mezzi d’informazione, con i media, gli utenti e i cittadini. La comunicazione dev’essere trasparente, chiara e sintetica e avere ad oggetto informazioni corrette, oggettive e di effettivo interesse pubblico, rispetto sia a specifici casi giudiziari sia all’organizzazione e al funzionamento dell’apparato di giustizia. Così potranno essere comprensibili all’esterno il ruolo e l’attività della giurisdizione e si potrà contrastare, ove necessario, il pregiudizio ad essa derivante da informazioni errate, false o distorte.

Un altro ddl costituzionale che riguarda la giurisdizione è all’esame del Parlamento, quello sulla separazione delle carriere di giudici e pm: non consentirebbe una più lineare attuazione di quanto già introdotto nel 1999 all’articolo 111, senza peraltro compromettere l’autonomia del magistrato?

Vorrei esporre alcune critiche rispetto a tale disegno di legge costituzionale, pur legittimo e autorevole. La garanzia costituzionale d’indipendenza e di governo autonomo della Magistratura è diretta ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti della persona. L’esercizio della giurisdizione viene affidato in via esclusiva a magistrati non elettivi, la cui opera di valutazione delle prove e del fatto e di interpretazione delle norme, ancorata com’è solo alla “legge” ( articolo 101, comma 2) e alla “ragione” ( articolo 111, comma 6), è sottratta alle logiche e ai condizionamenti sia del potere esecutivo, sia delle mutevoli maggioranze parlamentari, sia del consenso popolare. Viene sancita in tal modo una voluta eccezione al principio di partecipazione democratica, secondo una concezione radicalmente distante da quella giacobina, per la quale il magistrato, nel pronunciare i provvedimenti “in nome del popolo”, dovrebbe essere anche espressione della volontà del popolo. L’Assemblea costituente, nel recepire il disegno di Calamandrei, decise che anche il pubblico ministero dovesse appartenere all’unico ordine giudiziario, sulla base di una comune cultura della giurisdizione, e fruire della garanzia d’indipendenza. E ciò in considerazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale ( articolo 112), diretto ad assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e del criterio logico per cui l’effettivo grado d’indipendenza del giudice penale, in ordine alla quantità e alla qualità degli affari da trattare, si misura in diretta proporzione con il livello d’indipendenza garantito alle scelte investigative e procedimentali dell’ufficio del pubblico ministero. Orbene, il ricordato progetto di riforma sulla separazione dei ruoli e delle carriere dei magistrati, peraltro incoerente con la proposta di rafforzare, col ricono- scimento dell’indipendenza e dell’autonomia, il ruolo e la funzione dell’avvocato in Costituzione, è destinato a destrutturare larga parte del modello costituzionale riguardante l’indipendenza e l’ordinamento professionale della Magistratura, insieme con il sistema di governo autonomo del Csm e col principio di obbligatorietà dell’azione penale. Esso, a mio avviso, potrebbe inoltre determinare, per una paradossale eterogenesi dei fini, l’effetto perverso di una spiccata autoreferenzialità e indifferenza della pubblica accusa rispetto alle sorti del processo, anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica.

E perché teme un simile effetto?

L’organo dell’accusa potrebbe essere sollecitato ad intessere un dialogo diretto con i media e, tramite questi, con il popolo, anziché con i protagonisti del contraddittorio nel processo, allargando ancor più la forbice fra gli immediati pre- giudizi dell’inchiesta e del rito mediatico, da un lato, e i tardivi esiti del giudizio penale, dall’altro. Con il conseguente rischio che prevalgano logiche di chiusura corporativa dell’ufficio del pubblico ministero, opposte alla linea, tracciata dai Costituenti, dell’attrazione ordinamentale di questa figura nel perimetro della cultura della giurisdizione.

Alcune delle “derive” da lei descritte, però, già si manifestano con l’ordinamento attuale.

A me sembra che meriti di essere coltivata la proposta alternativa di aprire un più largo ventaglio di finestre di controllo del giudice nei momenti topici delle indagini preliminari, quali l’iscrizione nel registro degli indagati, i tempi e la durata complessiva delle indagini o le scelte imputative incidenti sulla selezione dei differenti binari processuali, oltre a implementare la concreta efficacia di quelle già disciplinate ( la proroga delle indagini, le misure cautelari, le intercettazioni, l’esercizio dell’azione penale eccetera), anziché introdurre interventi di tipo gerarchico come l’avocazione, che esaltano la logica di separatezza dell’ufficio e si rivelano inefficaci o compressivi dell’indipendenza interna dei singoli magistrati. La via maestra, e più vicina agli ordinamenti processuali dell’Europa continentale, resta, a mio avviso, quella del serio rafforzamento del ruolo, dei poteri e della responsabilità del giudice per le indagini preliminari, accompagnata dalla rivisitazione del titolo logico che dovrebbe presidiarne le opzioni conclusive - oggi la mera idoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio (artt. 125 disp. att. c. p. p. e 425, comma 3 c. p. p.) - in termini più stringenti e prossimi alla prognosi di colpevolezza dell’indagato/ imputato.

Anche all’interno della magistratura permangono componenti piuttosto “fredde” rispetto all’idea di un esplicito riconoscimento, in Costituzione, della funzione dell’avvocato: come si può spiegare tale scetticismo?

Debbo in effetti annotare, in merito al progetto di riconoscimento esplicito della figura e della funzione dell’avvocato in Costituzione, un atteggiamento di “freddezza” da parte di talune componenti associative della magistratura e degli stessi magistrati. Ma sono certo che l’allargarsi del dibattito sulla questione sia in Parlamento che all’interno del ceto dei giuristi farà crescere anche fra i magistrati la presa di coscienza degli effettivi valori in gioco, cui ho fatto riferimento in precedenza, e l’attenzione e il livello di adesione al progetto.

Al Csm lei si è espresso favorevolmente a un’altra riforma: quella che, in ciascun Consiglio giudiziario, estenderebbe ad almeno un rappresentante del Foro il diritto di voto sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. Una simile norma sarebbe una declinazione concreta del riconoscimento costituzionale dell’avvocato?

Si tratta della cosiddetta geometria variabile nella partecipazione dei componenti laici - avvocati e professori universitari - alle deliberazioni dei Consigli giudiziari: ho sempre avvertito la distonia della vigente disciplina ordinamentale rispetto al Csm, nel quale la presenza attiva dei membri eletti dal Parlamento - avvocati e professori universitari - è assolutamente garantita pleno iure. Non si comprende perché la ratio fondante la prescrizione dell’articolo 104 della Costituzione - evitare cioè il rischio di un governo autoreferenziale e corporativo dello statuto professionale dei magistrati - non debba permeare anche le regole di funzionamento dei Consigli giudiziari, che pure sono organi distrettuali ausiliari dell’autogoverno della magistratura e titolari di poteri prevalentemente consultivi in tutte le materie riservate al Csm.

È un’obiezione a cui è difficile replicare ulteriormente.

Trovo l’asimmetria della disciplina dei Consigli giudiziari “a composizione ristretta” ingiustificata e addirittura mortificante per l’Avvocatura e per l’Accademia. E ciò anche alla luce della concreta esperienza vissuta come presidente di due Consigli giudiziari, quelli presso le Corti d’appello di L’Aquila e di Milano, e del Consiglio direttivo presso la Corte di Cassazione, nei quali, anche attraverso il riconoscimento del cosiddetto diritto di tribuna, ho potuto constatare l’indipendenza di giudizio, la correttezza dei comportamenti e la serietà dei contributi offerti dagli avvocati e dai professori, nella ricerca, di volta in volta, della soluzione più equilibrata in tema di valutazioni quadriennali di professionalità, conferimento o conferma di incarichi direttivi o semidirettivi, incompatibilità, incarichi extragiudiziari dei magistrati eccetera. Sono certo che l’avversione di talune componenti della magistratura associata alla ricostruzione omogenea delle regole di funzionamento e di deliberazione dei Consigli giudiziari sia frutto di una non ancora matura considerazione dei valori in gioco e degli effetti distorsivi cagionati dal regime attuale. Un primo e urgente intervento riequilibratore, che riconosca intanto l’equi- ordinazione formale dei protagonisti della giurisdizione nel governo autonomo della stessa, potrebbe consistere nella previsione che, come già avviene per il presidente del Cnf nel Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, anche il presidente del Consiglio dell’Ordine del capoluogo di ogni singolo distretto partecipi a quel Consiglio giudiziario nella veste di membro laico di diritto, insieme con il Presidente e il Procuratore generale della Corte d’appello, perciò con pieni poteri deliberativi in ogni materia. Risulterebbe in tal modo assicurata una più apprezzabile razionalità dell’istituzione e una più solida efficacia del suo operato, funzionale al buon andamento e alla credibilità dell’organizzazione giudiziaria.