«Non è un problema giudiziario. É peggio. É un problema politico». Non si parla di Maria Elena Boschi ma di Annamaria Cancellieri, all’epoca ministra della Giustizia, e a bersagliarla non era il solito M5S ma il futuro premier Matteo Renzi. Il problema, argomentava il fiorentino, non era l’arrivo o meno di un avviso di garanzia. Era il fatto che quando un ministro è intimo di una famiglia nei guai «non mette naso, non telefona, sta fuori». La famiglia nei guai era quella di Salvatore Ligresti, amico di lunga data della ministra e con una figlia in manette nel quadro dell’inchiesta su Fonsai, società assicurativa della famiglia Ligresti.

Tra il caso Cancellieri e quello Boschi c’è una differenza palese, tutta contenuta in quella paroletta che dagli spalti del Pd è stata ripetuta fino all’estenuazione in questi giorni. La Boschi non ha mai esercitato pressioni a favore della Banca di cui suo padre era vicepresidente. La Cancellieri invece aveva telefonato ai dirigenti del Dap chiedendo di verificare lo stato di salute della figlia dell’amico e la sua «compatibilità con la detenzione». É vero che con quell’intervento la guardasigilli rientrava in pieno nel perimetro delle proprie competenze e che di interventi sulle condizioni di vita di singoli detenuti, privi di legami amicali di sorta, ne aveva già fatti. Renzi riteneva tuttavia che il problema si ponesse lo stesso, dal punto di vista politico se non da quello giudiziario, e che il Pd sbagliasse a votare contro la mozione di sfiducia contro la ministra, che fu infatti respinta. Tra quella vicenda vecchia ormai di quattro anni e la tempesta che si sta abbattendo sulla Boschi c’è un legame più sottile della semplice somiglianza, del resto molto più apparente che sostanziale. La sottosegretaria Boschi sconta un danno che non riguarda comportamenti penalmente censurabili ma che in compenso ledono seriamente la sua immagine. Solo che la valutazione dell’immagine di un leader politico non è fissa, data per una volta per tutte. É soggetta a oscillazioni paragonabili a quelle della borsa. Basti pensare che appena trent’anni fa un premier poteva dimettersi per aver informato un compagno di partito dell’imminente arresto del figlio terrorista e omicida ed essere eletto due anni e mezzo dopo presidente del Senato e poi capo dello Stato con il supporto entusiasta dell’opposizione.

Incalzato dalla propaganda a cinque stelle, ma anche dalla vocazione del suo gruppo dirigente, il Pd ha contribuito in questi quattro anni all’affermarsi di una sorta di giacobinismo strisciante. La lista dei ministri dimissionari parla da sola. Nel giugno 2013 si dimette la ministra dello Sport Josefa Idem, per tasse sul patrimonio immobiliare non pagate. Della questione si occupava il marito, la Idem prova pertanto a resistere ma meno di 24 ore dopo aver dichiarato l’intenzione di non dimettersi è costretta a cedere. La ministra per gli Affari regionali Maria Carmela Lanzetta perde invece il ministero per aver accettato, e subito dopo rifiutato, l’incarico di assessore nella giunta regionale calabrese nella quale figurava Nino De Gaetano, inquisito per voto di scambio. Il fulmineo passo indietro non basta. La ministra diventa ex nel gennaio 2015.

Nello stesso mese passa la mano Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture. Personalmente non risulta aver intascato niente, ma il figlio porta al polso un Rolex regalatogli dall’imprenditore coinvolto nell’inchiesta fiorentina Grandi opere Stefano Perotti. L’orologio, regalo per la laurea, veniva sfoggiato dal giovanotto quando si recava al lavoro, nell’azienda dello stesso Perotti. Faccenda senza dubbio sospetta, ma al ministro non era stato contestato niente e si fatica a capire la differenza di trattamento tra lui e il compagno di partito ( Ncd) Giuseppe Castiglione, sottosegre- tario a tutt’oggi in carica nonostante sia coinvolto nell’affare più lercio di “Mafia capitale”, quello che riguarda il CARA di Mineo, centro d’accoglienza per migranti. Nel marzo 2016 è il turno di Federica Guidi, ministra dello Sviluppo. Il compagno è indagato a Potenza per una storiaccia di smaltimento rifiuti derivati da estrazioni petrolifere. Lei è accusata di aver passato al consorte notizie utili per i suoi affari sospetti.

Queste dimissioni imposte anche in assenza di semplici avvisi di garanzia, sulla base di dubbi derivati da rapporti di amicizia e parentele, legittimano passo dopo passo una concezione della giustizia che impone il passo indietro non appena il sospetto aleggi su un esponente di governo. Solo che anche questa regola giacobina, mancando di codificazione e basandosi solo sulla valutazione della ' opportunità politica', si rivela iniqua. Colpisce a casaccio, lasciando al proprio posto un inquisito per faccende gravi come Castiglione ma reclamando la testa di Federica Guidi per fatti molto più lievi. Finisce così che chi rifiuta il passo indietro, come appunto Castiglione o come Maria Elena Boschi, rischia di pagare un prezzo altissimo in termini di popolarità e consenso.

Di questo giacobinismo all’italiana, in cui quel che conta non è che la moglie di Cesare sia al di sopra di ogni sospetto ma solo che lo sembri, nessuno è stato vittima più del Pd di Renzi. Vittima però non priva di colpe. Asceso alla guida del Pd contemporaneamente al dilagare dell’M5S e in seguito a quell’affermazione di Grillo, Renzi ha tentato di tenere insieme due ruoli opposti. Si è proposto come argine al ' populismo' grillino ma anche come concorrente diretto di quel populismo. È in nome di questa strategia doppia e contraddittoria che ha non solo appoggiato le richieste di dimissioni dei vari ministri ma anche fatto proporre a Richetti una legge sui vitalizi pregressi ininfluente sul piano dei conti, discutibile su quello costituzionale e puramente propagandistica. Per lo stesso motivo ha insistito per la convocazione della commissione d’inchiesta sulle banche, muovendo allo stesso tempo un’offensiva frontale contro Bankitalia anche a costo di creare frizioni serie con il Quirinale e persino con Gentiloni.

Il bilancio della strategia in questione è tutto in rosso. La legge sui vitalizi è stata bloccata dallo stesso Pd, fornendo così un’arma ai pentastellati invece di scippargliela. La commissione sulle banche si è risolta in una Caporetto. L’argine contro il ' populismo' premia secondo i sondaggi più Forza Italia che non il Pd. Di qui alle elezioni Renzi dovrà dunque decidere quale parte giocare nella commedia della politica italiana. Il peggio che possa fare è insistere nel cercare di farne due insieme, tra loro incompatibili.