Alberto Barbera, il direttore artistico della Mostra del Cinema lo aveva annunciato fin dalla conferenza stampa a luglio, il tema dominante dei film al festival sarebbe stato la migrazione, affrontata come dramma epocale.

Human Flow di Ai Weiwei, presentato nel terzo giorno di concorso, può essere considerato il punto massimo di raccordo di ognuna di queste analisi cinematografiche del fenomeno. Colpisce infatti nel profondo la poesia visiva con cui l’artista cinese documenta nel corso di un anno, quello che è considerato ormai il più grande esodo umano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Weiwei viaggia attraverso 23 paesi tra cui Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Iraq, Italia, Messico e Turchia e ci mostra i volti di chi è in cerca di rifugio, di riparo e di giustizia, chi sta per tentare il salto nel vuoto verso un paese che non conosce ed un possibile futuro. Pur rappresentando immagini di devastazione e miseria, la natura filmata da Ai Weiwei è sempre luminosa e accogliente quasi a sottolineare che sono gli uomini la causa di tutto. Scandito da poesie ad inizio di ogni capitolo dedicato ad un paese, Human Flow è anche una questione personale per Weiwei, poiché è egli stesso figlio di genitori costretti all’esilio perché anti- comunisti ed è stato prigioniero politico. L’artista ci invita a chiederci perché stiamo fermi a guardare e perché abbiamo permesso che tutto ciò accadesse e continui ad accadere. Nonostante la poetica e la dignità delle immagini, Ai Weiwei non centra del tutto l’obiettivo poiché troppo intento a partecipare attivamente al racconto, a relazionarsi personalmente con i rifugiati risultando quasi ingombrante, non lasciando loro tutto lo spazio necessario.

È invece molto intimo e profondo lo spazio dedicato al percorso di crescita di un quindicenne in Lean on Pete di Andrew Haigh, presentato in concorso. Il regista inglese, dopo Weekend ed il fortunatissimo 45 Years, sceglie gli Stati Uniti e l’America profonda per raccontare la storia del giovane Charley Thompson. Tratto dal romanzo La Ballata di Charley Thompson di Willy Vlautin, Lean on Pete segue il vagabondare del protagonista assieme al padre attraverso un paesaggio quasi fermo nel tempo, con la disperata voglia di fermarsi e impiantare radici e soprattutto legami.

A Portland Charley trova un maneggio che alleva cavalli da corsa dove incontra Del Montgomery ( Steve Buscemi) che accetta di assumerlo come assistente. A 15 anni è ancora così giovane ma si vede lontano un miglio che sta già cercando ardentemente il suo posto nel mondo. Sua madre lo ha abbandonato e suo padre lo ama profondamente pur essendo visibilmente incapace di occuparsi di lui. Charley crea immediatamente un legame speciale con il cavallo Pete che lo conforta con la sua sola presenza quando anche l’ultimo punto di riferimento della sua giovane vita si fa sempre più lontano. «Non ho mai considerato il film o il romanzo come un racconto di formazione, piuttosto è il contrario, un ritorno all’essere bambini in cerca di protezione» rivela Andrew Haigh. Non si può dar torto al regista mentre si osserva il comportamento del protagonista. Come molti adulti testardi e feriti dalla vita, cerca costantemente aiuto ma poi quando c’è qualcuno che può offrirglielo, lo rifiuta.

Accanto a Charley però c’è Pete ed a questo silenzioso e imponente animale che si può confidare la propria storia.

In una delle migliori scene del film, il ragazzo si scopre, si rivela e si confida. E gli si vuol bene a questo grande bambino biondo, ancor di più ora che conosciamo la sua storia. Cammina per chilometri a testa bassa senza avere il coraggio di farsi trasportare dal suo amico Pete ma stando semplicemente al suo fianco, come due veri amici, alla pari. Per diventare veramente adulti, bisogna prima essere stati dei bambini a tutti gli effetti ed Haigh si concentra su questo. Lean on Pete è un film imperfetto perché è difficile condensare in due ore un lungo percorso di cambiamento di un ragazzo. Difetti però trascurabili perché Haigh continua ad essere un maestro dei finali sospesi.

Weekend e 45 years ci lasciavano immaginare il dopo, a discuterne ed a sperare. Succede anche con Lean on Pete e il pubblico applaude commosso. Ai supereroi viene ricordato che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, i Leoni d’Oro alla carriera di Venezia 74, Robert Redford e Jane Fonda, ci ricordano che vale anche per il successo. Fondatore del Sundance Film Festival e il Sundance Film Institute che ha prodotto Le nostre anime di notte - Our Souls at Night di Ritesh Batra, Robert Redford dichiara «Avere tanto successo a cosa serve se non a dare più possibilità ai giovani e incentivare i registi indipendenti? Voglio che si crei un circolo virtuoso». 50 anni fa, durante A Piedi Nudi nel Parco si vociferava che i due si piacessero sul serio. Jane Fonda fuga ogni dubbio: «Lui è stato una delle mie fantasie per molto tempo». Tratto dall’omonimo romanzo di Kent Haruf, Our souls at night

è una storia d’amore tra due vicini di casa, giunti nella fase finale della loro esistenza. «La notte è il momento più difficile» dice Addie ( Fonda) al suo vicino Louis mentre gli propone di dormire insieme, di farsi compagnia. Sdoganando ogni regola che vorrebbe vedere sempre sul grande schermo passioni travolgenti tra giovani attori, Redford e Fonda dimostrano una grande verità: non c’è età per l’amore e neanche per il sesso. «Il mio personaggio incoraggia lui e poi Robert bacia benissimo» sorride Jane Fonda «questo film ha coronato il nostro lavoro iniziato anni fa e finito oggi». A farci sognare insieme a questi due immensi attori, ci ha pensato Netflix.

Our Souls at Night sarà disponiibile alla visione sulla piattaforma dal 29 settembre 2017.