Sono fuggiti su un barcone dalla guerra civile e dalla povertà in Nigeria, ma - anche se la normativa europea lo impedirebbe - in Italia quella stessa povertà minaccia oggi di fargli perdere la custodia del loro bimbo appena nato. Oluwa e Latifah (nomi di fantasia) hanno ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari e sono da due mesi genitori del piccolo Asabe, nato in un’ospedale vicino Cagliari. Eppure, davanti al Tribunale dei Minorenni pende una procedura di adottabilità per il bambino. Con i permessi, infatti, i coniugi non hanno più avuto diritto all’ospitalità nelle strutture di accoglienza e dunque sono stati ritenuti inidonei a provvedere ai bisogni di un neonato.I loro guai sono iniziati subito dopo che Latifah ha partorito e ha chiesto le dimissioni dall’ospedale, contro il parere dei medici. «Sono stata chiamata dalla psicologa dei servizi sociali e la situazione era molto tesa», ha raccontato l’avvocato difensore della famiglia, Stefana Bandinelli, «Latifah non parlava italiano, era spaventata e si rifiutava di venire portata con il piccolo in una casa protetta, perchè ciò significava consegnare il suo cellulare». Le regole della comunità, infatti, prevedono di non poter avere autonomamente contatti con l’esterno, ma quel cellulare, per Latifah, era l’unico legame col marito, che era invece costretto a vivere in strada. La procedura di adottabilità a cui è sottoposto Asabe impone obblighi pesanti sulla famiglia: la mamma e il bambino devono rimanere in comunità e i contatti con Oluwa possono avvenire solo con la supervisione dei servizi sociali, per un’ora tre volte a settimana. «Secondo le norme europee, l’indigenza non può essere considerata una condizione di adottabilità per un minore, eppure nei fatti si rivela vero il contrario. E’ evidente che un bimbo di soli 40 giorni non può vivere per strada, dove invece sarebbero sicuramente finiti i suoi genitori ora che hanno il permesso di soggiorno. La legge non prevede alcun sostegno dopo l’emergenza, dunque nei fatti la povertà di questi ragazzi minaccia di diventare la causa della loro separazione dal figlio», ha spiegato l’avvocato Bandinelli. Il paradosso è che proprio la procedura di adottabilità permette alla donna di rimanere nella casa famiglia e di ricevere un minimo di supporto nei primi mesi di vita di Asabe. Dove la legge lascia un vuoto, però, hanno sopperito il volontariato e, dove potevano, Comune e servizi sociali, che si stanno occupando di trovare una casa alla famigliola, attraverso un progetto di inserimento sociale. Intanto, lui frequenta un corso di lingua, ha trovato ospitalità presso dei connazionali e lavora, facendo l’ambulante ai semafori. Lei continua a vivere in comunità, ma il Tribunale dovrebbe disporre a breve un provvedimento che trasformi il procedimento di adottabilità in volontaria giurisdizione, che consentirebbe vincoli meno stringenti sui due genitori.