«Iterroristi non arrivano con i barconi dalla Libia, ma con visti turistici e passaporti di uno stato arabo». Il generale Mario Mori, comandante del Ros e dal 2001 al 2006 capo del Sisde, durante gli anni delicati post 11 settembre, in cui i nostri servizi segreti sono stati impegnati contro i primi fenomeni terroristici.

Generale, lei conosce a fondo la Libia: ritiene che il fenomeno migratorio che parte da quelle coste sia in qualche modo regolabile?

Tutti i fenomeni possono essere regolabili, in un modo o nell’altro. Regolare i flussi migratori quando i migranti, siano essi politici o economici, sono già arrivati in Italia, però, è molto complesso visti i numeri. E’ altrettanto difficile se non addirittura impossibile arginare il fenomeno quando i migranti sono entrati nel territorio libico, perché oggi le istituzioni di quello Stato vivono una fase di crisi assoluta e non sono in grado di gestire nulla.

E dunque come si può intervenire?

A mio avviso si deve intervenire sul margine meridionale del confine libico, quindi nella zona sudequatoriale ai confini con il Niger. Da lì bisogna iniziare: prendendo contatti coi governi dei singoli Stati.

Ma cosa possiamo mettere sul piatto della bilancia?

L’Italia dovrebbe allettarli in qualche modo, con sovvenzioni cospicue per esempio, che consentano di migliorare la loro situazione economica. In questo modo questi Stati sarebbero indotti a creare situazioni di controllo e di filtro per i migranti. A questo punto, si potrebbe fare direttamente in loco la selezione di chi ha diritto all’accoglimento, portandoli in Europa direttamente da lì. In questo modo, non sarebbe nemmeno più importante farli passare dalla Libia.

Eppure il governo italiano ha stretto accordi con il governo libico, senza però risultati efficaci.

Allo stato attuale, il presidente di Fayez al- Sarraj non è un interlocutore credibile, per la semplice ragione che non ha il potere di imporsi in Libia e addirittura non ha neanche il pieno controllo di Tripoli. Nella capitale, infatti, è contrastato da Khalifa al- Ghwell, che è il suo avversario politico, sostenuto dalla Fratellanza musulmana e quindi dalla Turchia. La zona della Cirenaica, poi, è addirittura gestita da un altro governo, in lotta con al- Serraj e con al- Ghwell.

Nei suoi anni al Sisde, lei si è occupato della situazione libica. Come veniva gestita allora?

Innanzitutto c’era il vantaggio di avere un interlocutore unico, che all’epoca era Gheddafi. Con lui esistevano rapporti formali che re- golavano il flusso dei migranti e gli stessi libici avevano tutto l’interesse a controllare i loro confini a sud, perché consideravano quella dei migranti una vera e propria invasione, potenzialmente pericolosa per il loro ordine pubblico. In pratica, loro cercavano di bloccare i flussi e questo conveniva anche a noi.

Che natura avevano questi accordi?

La domanda mi fa sorridere: si trattava di reciproci scambi e accordi di natura politico- economica e compensazioni facilmente intuibili.

Oggi esiste davvero il rischio che sui barconi arrivino in Italia anche i terroristi?

No. Un capo terrorista dell’Isis che ha speso mesi per addestrare una dozzina di terroristi da mandare in giro per l’Europa non li mette a rischio di essere presi da bande di predoni nel deserto libico, di morire nel Mediterraneo e infine non li fa arrivare in un porto italiano, dove verrebbero subito identificati con impronte digitali e fotografia. Non ha ragione di farlo: oggigiorno qualsiasi stato arabo fornisce passaporti validi per raggiungere a scopo turistico Roma, Parigi, Bruxelles o Londra.

Eppure Amri, l’attentatore di Berlino, è arrivato proprio sbarcando in un porto italiano.

Amri è arrivato in Italia sui barconi, come tanti altri non è riuscito a trovare una situazione di vita accettabile ed è finito in carcere perché costretto a commettere piccoli reati. Nelle nostre prigioni ha conosciuto elementi radicali e si è a sua volta radicalizzato. Ma il problema è questo: i soggetti deboli sono facile preda di radicalizzazioni.

Ma se raggiungere Roma con visto turistico è così facile, perchè in Italia ancora non c’è stato un attentato?

La politica estera dello stato italiano è diversa da quella di Francia, Gran Bretagna e Belgio. Noi non abbiamo la storia coloniale di questi paesi e nemmeno migrazioni dalle ex colonie. Inoltre, in questi paesi si sono formate grandi concentrazioni di immigrati. In Italia, invece, non abbiamo grandi cittàstato come Parigi, Londra o Marsiglia, ma tanti centri economici piccoli e medi. Questo fa sì che la diffusione dei migranti sul territorio sia quasi automatica e questa è anche la strategia del Ministero, che ripartisce gli ultimi arrivi nei vari comuni, proprio per evitare le concentrazioni come Molenbeek a Bruxelles. Le concentrazioni, infatti, replicano sul territorio europeo quelle che sono le condizioni di vita nei paesi d’origine e chi arriva con intenti malvagi nuota in un’acqua che lo protegge e lo confonde, consentendogli di operare.

Basta questo a prevenire gli attentati?

No, ma noi abbiamo anche un’ottima polizia di prevenzione. La nostra è una polizia che, nel dopoguerra, ha affrontato una serie di fenomeni di grande criminalità, terrorismo interno e internazionale che hanno generato una professionalità diffusa. Questo ci rende molto forti nella prevenzione e tutti questi fattori sommati ci danno qualche garanzia in più. Non certo la sicurezza, però: il pazzo di Nizza può attaccare ovunque. Ritengo, tuttavia, che attentati coordinati in più punti della città come quello di Parigi siano estremamente se non assolutamente improbabili.

L’Italia ha chiesto l’intervento dell’Unione Europea per fronteggiare la crisi dei migranti. In che modo l’Ue deve intervenire?

L’interlocuzione nei confronti della Libia può essere fatta anche solo dall’Italia. Il problema, però, è noi non siamo in grado da soli di reggere economicamente, strutturalmente e logisticamente una attività di grandi dimensioni sul territorio libico. Tutta l’Europa deve collaborare, facendo valere il peso di un intero continente, soprattutto sul piano economico.

Ma praticamente che cosa si dovrebbe offrire ai paesi di provenienza dei migranti?

Bisogna invogliarli a venire incontro alle nostre esigenze attraverso offerte di natura economica, di attività produttive delegate e di istruzione, sia sul piano economico- industriale che su quello delle forze di polizia. In pratica, serve un vero e proprio piano generale che faccia rinascere quei Paesi, consentendogli di fronteggiare o addirittura evitare la fuga dei loro cittadini verso situazioni di benessere superiore.