Più Giorgia Meloni si muove, più occupa la scena nazionale e quella internazionale, vola a Tunisi, rientra a Roma per incontrare il cancelliere tedesco e prepara un altro viaggio in Tunisia facendosi accompagnare stavolta della presidente della Commissione Europea, più i suoi avversari finiscono per ritrovarsi sotto l’arco di Tito a cacciare farfalle. Cioè a inseguire qualcuno che riesca ad assomigliare, quanto meno, ad un capo o a un punto di riferimento delle opposizioni divise e claudicanti. E’ uno spettacolo francamente surreale.

Repubblica, per esempio, spara giovedì 8 giugno su tutta la sua prima pagina un’intervista al presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato, due volte presidente del Consiglio, per fargli intimare: “Meloni rompa con Orbàn”. Ma il giorno dopo, venerdì 9 giugno, è già costretta a titolare che non per ordine di Amato ma per libera scelta della stessa Meloni “l’Italia non vota con Orbàn” a Lussemburgo nel Consiglio europeo dei ministri dell’Interno sul problema dei migranti.

Ancora più chiaramente o decisamente la consorella Stampa, che da Torino affianca Repubblica, annuncia che “Meloni rompe con Orban”, che nell’occasione perde anche l’accento sulla seconda vocale del cognome. Le cose cambiano insomma senza che i giornali fiancheggiatori o sostituti delle opposizioni riescano a tenerne il passo.

Nella stessa intervista dell’ 8 giugno a quella specie di “papa straniero” delle opposizioni Repubblica riceve da Amato più smentite o correzioni che conferme alle tante domande e osservazioni contro la premier: un Amato insomma più vicino che lontano da Sabino Cassese e Luciano Violante liquidati qualche giorno prima sprezzantemente sul Fatto Quotidiano come “i patrioti di Giorgia”.

Invitato, per esempio, a riconoscersi in «due persone solitamente misurate come il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’ex primo ministro Romano Podi che hanno lamentato una lenta erosione degli strumenti democratici in Italia, con il rischio di una involuzione autoritaria», Amato si smarca rispondendo: «Ho qualche dubbio che questo sia vero. Vedo tracce di una fragilità crescente della democrazia nel nostro paese, ma le vedo ancora di più negli Stati Uniti. Ora il disfacimento di alcuni fili importanti della nervatura democratica può portare a un indebolimento delle istituzioni, ma non vedo quel rischio autoritario denunciato da Stiglitz e Prodi».

Non è poi detto per niente - aggiungo ioche a quel «disfacimento di alcuni fili importanti della nervatura democratica» operi solo la Meloni e non anche la nuova segretaria del Pd Elly Schlein, per esempio, quando non soccorre una ministra alla quale viene pubblicamente impedito dai contestatori di parlare di un suo libro autobiografico e dei temi di sua competenza governativa.

Invitato a pronunciarsi contro il “reato universale” della maternità surrogata perseguito dalla Meloni, l’ex presidente del Consiglio riconosce sì che è sostanzialmente una sciocchezza tecnico- giuridica ma avverte: «Fui io a scrivere parole di fuoco contro la maternità surrogata nella sentenza della Corte Costituzionale. Lo ricordo perché non vorrei che l’attuale crociata della destra spingesse il Pd ad una sua difesa ad oltranza. La maturità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, come sta scritto nella sentenza».

Spinto a difendere la Corte dei Conti «privata per decreto del potere di controllo sul piano nazionale di ripresa e resilienza», Amato preferisce ricordare che «il controllo concomitante della Corte dei Conti era stato introdotto con saggezza da Renato Brunetta nella sua riforma della pubblica amministrazione del 2009. Era il classico “controllo collaborativo” che una norma a mio avviso sbagliata - introdotta dal governo Conte 2, quello con il Pd- ha trasformato in “controllo punitivo” con la segnalazione degli amministratori responsabili. Togliere completamente quel controllo - ha spiegato Amato- è un errore. Sarei stato più elegante: l’avrei ripristinato nel modo collaborativo in cui l’aveva pensato Brunetta, sopprimendo gli aspetti punitivi che spingono gli amministratori a non fare». Elegante, dice di sè l’ex presidente del Consiglio giustamente noto come “dottor Sottile”, non confondibile con difensori tout court di una Corte dei Conti violentata, stuprata e quant’altro dal governo. Assediata come una fortezza da facinorosi abituati a delinquere.

Infine, ma solo per ragioni di spazio, non per ricchezza di spunti e sorprese, Amato viene trascinato sulla strada delle polemiche contro il cosiddetto premierato che comprometterebbe la figura di garanzia del presidente della Repubblica, del quale peraltro anche lui aveva sostenuto molti anni fa l’elezione diretta. «Anche nel caso del premierato mi pare - dice l’ex presidente del Consiglio- stia prevalendo una linea più morbida. E’ stata scartata infatti l’elezione solitaria del premier. Davanti ad un primo ministro che ha la legittimazione popolare diretta la figura del capo dello Stato perderebbe la sua autorevolezza. Quindi si sta andando verso una strada già battuta in passato, ossia la possibilità per i cittadini di indicare nella scheda per il Parlamento il leader che si vuole come presidente del Consiglio, con in più la fiducia parlamentare solo a lui e non anche ai ministri”, che sarebbero così revocabili e sostituibili senza tante storie di partiti, correnti e sottocorrenti.

«Sarebbe- spiega Amato- una riforma costituzionale molto limitata, probabilmente condivisa da buona parte del centro- sinistra, e che non andrebbe così al referendum che- come sa bene la presidente Meloni- è sempre un rischio per il governo». Se fossi la Meloni, terrei conto di queste parole. E ringrazierei.