La storia della strage di Erba potrebbe essere riscritta. E per farlo sarà necessario stabilire se analizzare o meno le prove finora ignorate, che secondo la difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romani potrebbero raccontare un’altra verità su quanto accaduto l’ 11 dicembre 2006.

Adeciderlo è stata ieri la prima sezione penale della Cassazione, che ha accolto per vizio di forma il ricorso presentato dai legali dei coniugi contro il no pronunciato dai giudici di Como lo scorso aprile alla richiesta di procedere con nuove analisi. E ora la Corte d’assise della città lombarda dovrà fissare un’udienza, a cui tutte le parti potranno partecipare, per decidere se possano essere avviati o meno tali accertamenti. Una storia ancora caratterizzata da dubbi e incertezze, nonostante la sentenza definitiva pronunciata il 3 maggio 2011 che stabilì la colpevolezza di Rosa e Olindo. Nella strage, consumata nell'appartamento di una corte ristrutturata ad Erba, persero la vita Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini, mentre il marito di quest'ultima, Mario Frigerio, si salvò perché creduto morto dagli assalitori. Dopo quell’efferato delitto, l’appartamento venne dato alle fiamme, nel tentativo di cancellare ogni traccia. Ma qualcosa, secondo la difesa, è rimasta negli scatoloni troppo a lungo, pur potendo risultare decisivo per stabilire la verità dei fatti. Si tratta, in particolare, di alcune intercettazioni su Frigerio e i coniugi mai entrate nel processo, sparite, ma recuperabili con un accesso al server della procura. Intercettazioni la cui assenza ha lasciato un buco di una settimana nei dialoghi finiti nel processo. Ma tra le prove mai analizzate ci sono anche un telefono cellulare, formazioni pilifere rinvenute sulla felpa del piccolo Youssef mai esaminate, dei margini ungueali, macchie di sangue e un’impronta palmare che non appartiene né agli imputati, né alle vittime o ai soccorritori e attribuita ad un soggetto sconosciuto alle indagini. Prove che la difesa vuole invece analizzare, con lo scopo di completare e depositare una richiesta di revisione del processo.

Ieri, dunque, la Cassazione ha qualificato il ricorso come opposizione, trasmettendo di nuovo gli atti alla Corte d’assise di Como, che ora dovrà decidere il da farsi, dopo quattro anni di richieste, durante le quali tutti i tentativi della difesa sono rimbalzati tra Como, Brescia e Roma più volte. Lo scopo degli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e Nico D’Ascola è quello di fare degli accertamenti tecnici sui reperti, richiesta sulla quale i giudici di Como prima e quelli di Brescia poi si sono dichiarati incompetenti. La questione è approdata dunque in Cassazione la prima volta nel 2017, quando gli Ermellini hanno indicato Brescia come sede e l’incidente probatorio come istituto processuale. Ma dopo una prima udienza a Brescia, durante la quale era stato fissato il calendario per la nomina dei periti, l’istanza di incidente probatorio è stata dichiarata a sorpresa inammisibile. «Abbiamo così proposto un ulteriore ricorso in Cassazione - spiega Schembri al Dubbio - e il 12 luglio 2018 i giudici si sono pronunciati, rigettando. Ma ancora prima della decisione, quella stessa mattina, un cancelliere dell’ufficio corpi di reato di Como si è recato all’inceneritore, distruggendo buona parte di reperti, nonostante due provvedimenti dell’autorità giudiziaria che sospendevano la distruzione». La Cassazione, rigettando la richiesta di incidente probatorio, aveva però specificato che era diritto della difesa «la possibilità di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova anche al fine di promuovere il giudizio di revisione», ma attraverso l’accertamento tecnico irripetibile e quindi in contraddittorio tra le parti. E a farlo doveva essere la Corte d’assise di Como. Da qui la nuova richiesta di poter analizzare i reperti, di nuovo rigettata dal tribunale, che ha però chiesto un intervento della Suprema Corte per fare chiarezza sui poteri del giudice dell’esecuzione. Allo stesso tempo, la difesa aveva fatto un’opposizione al provvedimento con richiesta di fissazione di un’udienza pubblica. E così si è arrivati alla decisione di ieri, che potrebbe presto portare ad una richiesta di revisione. Il tutto mentre si attende di conoscere come sono andati i fatti che hanno portato alla distruzione delle prove lo scorso anno, ovvero una tenda in casa Cherubini, dei cuscini, un cellulare mai analizzato - e poi riapparso senza spiegazione in un plico aperto - dei mazzi di chiavi, un accendino e alcuni indumenti delle vittime, anche quelli in buona parte mai analizzati.

«Dopo la confessione di Olindo e Rosa - ha spiegato ancora Schembri - forse non si ritenne opportuno insistere con le indagini esaminando altro materiale». Ma da tempo i legali dei coniugi - che continuano a professarsi innocenti - e il marito di Raffaella Castagna, Azouz Marzouk, che recentemente ha dichiarato di conoscere i nomi dei veri assassini, chiedono la riapertura del caso, provando a ridisegnare i contorni di una storia definita da tre gradi di giudizio, terminati tutti con la condanna all’ergastolo di Rosa e Olindo. Alla base della condanna c’erano tre prove: una macchia di sangue nell’auto di Olindo, la prima confessione dei due - poi ritrattata - e il riconoscimento del testimone oculare, Mario Frigerio. Ma la vicenda cristallizzata dai tribunali, secondo Azouz, inizialmente sospettato ma scagionato perché in Tunisia al momento del delitto, non racconterebbe la verità. Così, su sua richiesta, l’avvocato Luca D’Auria ha presentato nei mesi scorsi al Tribunale di Milano un sollecito per la richiesta di revisione del processo sulla strage di Erba. «Le carte dicono chi è stato», ha dichiarato Azouz a Telelombardia, secondo cui i veri responsabili sono entrati a processo «da testimoni». Secondo Schembri, inoltre, i tre gradi di giudizio sarebbero stati caratterizzati da una serie di imprecisioni. A partire dalle confessioni, «zeppe di errori», ha spiegato. «Anche la sentenza dice che Rosa è delirante, così come la confessione di Olindo contiene 243 tra errori, “non so” e “non ricordo”». Una confessione, sostiene la difesa, determinata dalla volontà dei due di non separarsi, così come invece paventato dagli investigatori. «C’è un’intercettazione ambientale in cui Olindo dice a Rosa di voler confessare per prendersi la responsabilità e farla tornare a casa. Ma lei risponde che non c’è nulla da confessare, dal momento che sono innocenti - ha aggiunto - per poi essere la prima a farlo e far partire una gara a chi si assume le responsabilità che finisce con una ritrattazione». E anche la testimonianza di Frigerio, secondo il legale, sarebbe poco attendibile: nei primi 15 giorni, infatti, l’uomo aveva indicato un soggetto sconosciuto, di carnagione olivastra, non del posto. C’è poi un altro dato, l’assenza di tracce di Olindo e Rosa sulla scena del crimine, né delle vittime nella casa dei coniugi. Mentre la macchia in auto di Olindo, «potrebbe essere frutto di una contaminazione da parte degli stessi carabinieri, che potrebbero averla trasportata dalla scena del crimine alla macchina - aggiunge Schembri - tant’è non vi sono altre tracce e non esiste una foto della stessa della rilevazione col luminol» .