Caro direttore, ricordando la figura di Francesco Saverio Borrelli, il dottor Gherardo Colombo, celebre componente del manipolo che fu capeggiato dal primo, ha indicato il ruolo di cui dovrebbe farsi carico il buon magistrato: e cioè, scrive Colombo, “realizzare il compito della Repubblica ( e delle sue funzioni) di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…» ”.

È un modo apparentemente più soffice e visionario per riproporre quel che non molto tempo fa uscì di bocca a un altro esponente del cosiddetto “pool” di Mani Pulite, il dottor Piercamillo Davigo, poi abituale compagno di conferenze del medesimo Colombo: e cioè che compito del magistrato sarebbe di “far rispettare la legge”.

Ma in uno Stato di diritto né quel ruolo né questo compito sarebbero di competenza del magistrato, e il fatto che invece essi siano in questo modo proposti e democraticamente imbandierati denuncia con efficacia terribile su quale base di irrimediabile stortura pretende di fondarsi il potere di indagare e giudicare le persone.

Non sta al magistrato di far rispettare la legge. E non gli sta di rimettere in sesto una società eventualmente ingiusta. Perché a far rispettare la legge è messo il poliziotto: non il magistrato; e a rimediare all’ingiustizia sociale sono messi il potere parlamentare e di governo, così come l’azione privata e associativa nei luoghi della formazione civile e culturale: non i magistrati, non negli uffici delle indagini, non nelle aule dei processi.

Credere che sia diversamente, come fanno mostra di credere, magari anche in buona fede, certi esponenti della magistratura, arma la convinzione che la società possa essere ricondotta a giustizia tramite una requisitoria dell’accusa pubblica o con la sentenza che accerta e sanziona un illecito. La convinzione, appunto, che con questi strumenti possano ( e dunque debbano) essere rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale che un sistema ingiusto e corrotto frappone al trionfo dell’uguaglianza tra i cittadini. L’idea che il magistrato sia quello che si mette al lavoro per rimuovere l’ingiustizia sociale, e che in questo cimento risieda la giustificazione del suo potere di accusare, di arrestare, di condannare, veramente frantuma le fondamenta dell’organizzazione civile e democratica, con un ripiego del sistema in senso autoritario tanto più temibile perché si ammanta di “legalità”. E a questo pessimo risultamento si giunge tanto più facilmente quando l’azione giudiziaria è assistita da un consenso fatto di adunate intorno ai Palazzi di giustizia, con la turba dei buoni cittadini che chiedono ai magistrati di farli sognare.

È stato scritto ( sempre dal dottor Colombo) che Francesco Saverio Borrelli era “completamente indipendente dal potere politico”. È probabilmente vero. Come è vero tuttavia che di quel potere non aveva bisogno perché ne deteneva uno diverso e più vasto: il proprio, tutelato da quei cortei. La materia passiva dei costituzionalissimi esperimenti di giustizia sociale rivendicati dai militanti di Mani Pulite.