«Per uno così il carcere non basta». Ha detto, in modo poco prudente, il vicepremier Di Maio. «È così grande la rabbia che viene da dire che per uno così non basta nemmeno il carcere. Sei un essere inumano se investi due bambini in quel modo. Poi fuggi e non presti soccorso. Mi viene la pelle d’oca solo a pensarlo».

Non sono le parole di rabbia e dolore dei genitori di Simone e Alessio, i due bambini uccisi dal suv impazzito a Vittoria. E non sono neanche le parole di qualche commentatore social. Quel virgolettato è firmato da un ministro della Repubblica. Anzi, da un vicepremier: il vicepremier Luigi Di Maio.

Ma cosa intende di Maio quando dice che «per uno così non basta nemmeno il carcere» ? Evidentemente intende dire che “per uno così” ci vuole una punizione che va oltre il sistema penale previsto dalla nostra giurisdizione. E allora rimangono due cose: la tortura o la pena di morte.

Ma in questo modo l’unico risultato che il vicepremier ottiene è quello di indebolire lo stato di diritto. Ne sanno qualcosa gli avvocati difensori degli imputati del massacro di Vittoria che sono stati insultati e minacciati per il semplice fatto di fare il loro dovere.

«La dolorosissima vicenda dei due bimbi di Vittoria sta causando una reazione emotiva di odio nei confronti di quanti sono indicati come sicuri responsabili del reato. A questi vengono purtroppo accomunati perfino i due valenti difensori, additati della colpa di rappresentare chi non meriterebbe difesa alcuna», scrive infatti la Camera penale degli Iblei.

Ma, si dirà, anche un ministro delle Repubblica - pardon un vicepremier - ha il diritto di lasciarsi andare a un moto di rabbia. Il fatto però è che non è la prima volta che di Maio si lascia andare - per così dire - a reazioni “arrabbiate. Accadde già in occasione della sentenza di assoluzione nei confronti dei vertici di Autostrade nel processo per la strage del viadotto. E di fronte alla rabbia della “gente”, che arrivò ad assediare il tribunale e a insultare i giudici, Di Maio non trovò meglio da fare che schierarsi coi forconi del popolo: “Le sentite queste grida? – chiese postando il video della contestazione al giudice scoppiata in aula dopo la lettura del dispositivo – Sono quelle di chi si sente dire dallo Stato che non esiste un colpevole per la morte di suo figlio, sua figlia, sua mamma, suo papà, suo fratello, sua sorella”. Dimenticando però di dire che lo Stato era lui. Ma qui, a ben vedere, la rabbia c’entra davvero poco. Quella di Di Maio è un’operazione politica ben più sottile. Il vicepremier grillino - a dire il vero non solo lui - usa sempre un doppio canale comunicativo. Una riedizione ( un po’ al ribasso) della famosa doppiezza togliattiana.

A volte preferisce indossare il doppiopetto da vicepremier, buono per gli appuntamenti istituzionali o, magari, per trovare tribuna nei famosi salotti della “casta”. E un minuto dopo sbottona il panciotto, inforca la tastiera e, con la stessa nonchalance, parla ai cittadini, alla famosa “gente”. Ne accarezza il ventre e gli istinti più bassi con un unico obiettivo: cercare consenso, mantenere viva la “connessione sentimentale” col popolo degli indignati.

Ma Di Maio è un uomo dello Stato, ora dovrebbe diventare anche uno statista.