Alla Camera sono arrivate in tempo record 85 firme di deputati del centrodestra, sufficienti a chiedere il referendum confermativo sulla riforma della giustizia. Il plico, firmato da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, è stato depositato nel primo pomeriggio di ieri in Cassazione da Sara Kelany, Simonetta Matone ed Enrico Costa, rappresentanti dei tre gruppi di maggioranza. «Abbiamo finito, la mia era l’ottantesima firma», ha detto il capogruppo di Fdi Galeazzo Bignami. Anche al Senato la raccolta è partita ieri alle 17.30 e si concluderà nelle prossime ore: ne servono 41 per raggiungere la quota prevista dalla Costituzione.

La maggioranza, intanto, ha deciso di presentare due quesiti referendari distinti. Quello della Camera è più tecnico e riprende il titolo del disegno di legge costituzionale (“Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”) mentre quello del Senato sarà «più chiaro», come spiegano fonti di Fratelli d’Italia. L’idea è di sottoporre alla Cassazione due versioni: una formalmente inattaccabile, l’altra più comprensibile per l’elettorato. Se la Suprema Corte dovesse bocciare il testo semplificato, resterebbe in campo quello ufficiale. Il fronte politico, però, non è così compatto. Forza Italia, spinta dal suo segretario Antonio Tajani, ha già annunciato la nascita di comitati per il Sì «ispirati al pensiero di Silvio Berlusconi», che della riforma della giustizia fece una delle battaglie simboliche del suo ventennio. «Era un progetto del Cavaliere, un cardine del nostro programma», ha ricordato Tajani, sottolineando come «la famiglia Berlusconi abbia vissuto sulla propria pelle che cosa significa una giustizia ingiusta».

Parole che confermano la volontà degli azzurri di rivendicare la riforma come eredità diretta del fondatore, ma che, come ampiamente fatto filtrare nei giorni scorsi, creano qualche imbarazzo a Palazzo Chigi. Giorgia Meloni teme che la campagna referendaria possa degenerare in una nuova guerra tra “berlusconiani” e “antiberlusconiani”, oscurando il valore istituzionale della riforma Nordio. L'ideale dunque, per la presidente del Consiglio, sarebbe quello di gestire una campagna sul merito dei contenuti della legge Nordio, per rivolgersi a tutto l'elettorato e non alla propria parte. Per fare questo, decisiva sarà la scelta dei testimonial giusti, da reclutare tra figure autorevoli e competenti, come costituzionalisti, giuristi, esponenti della società civile e – perché no – ex- magistrati favorevoli alla riforma. In questi giorni, anche se non si tratta di un testimonial pro- governo, molto efficaci stanno risultando per le ragioni del sì gli argomenti proposti da Antonio Di Pietro, padre dell'inchiesta Mani Pulite, beniamino storico del giustizialismo italiano ma ora convinto assertore della necessità della separazione delle carriere e del sorteggio del per il Consiglio Superiore della Magistratura. E proprio nel momento in cui delle icone di una stagione altamente conflittuale si stanno facendo promotrici di una sorta di “pacificazione nazionale” sul terreno della giustizia, agli occhi della premier apparirebbe ancor più una stonatura riaccendere la polarizzazione e alimentare l’antico conflitto con le toghe. Per Meloni, invece, la sfida è parlare anche a chi non vota centrodestra, costruendo un consenso più ampio intorno alla riforma.

Per questo frena sulle parole d’ordine della Seconda Repubblica e guarda a un messaggio “sobrio e istituzionale”, che renda la giustizia un tema di civiltà, non di appartenenza. La partita, insomma, si sposta ora dal piano tecnico a quello politico. Dopo la corsa alle firme, comincia quella per la leadership della campagna referendaria. E se per Forza Italia è l’occasione di celebrare Berlusconi come il profeta inascoltato della riforma, per la premier la sfida è opposta: evitare che l’ombra del Cavaliere diventi l’alibi per nuovi scontri. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, dribblare provocazioni, risse e regolamenti di conti dialettici sarà un'impresa estremamente complicata per tutti, come dimostrano anche le polemiche di ieri, tra il caso Almasri, la richiesta di arresti domiciliari per Totò Cuffaro le dichiarazioni del Guardasigilli Nordio sul primato della politica sulla giustizia e gli attacchi dell'opposizione, dove è il M5S a guidare la pattuglia del no alla riforma, avendo già preso su questo terreno un vantaggio significativo su un titubante Pd. «Nordio», hanno dichiarato i parlamentari pentastellati, «ha parlato di 'primato della politica' ricordando il caso di un ministro che fu indagato, ha ricordato che l'ex premier Berlusconi è stato più volte processato e ha aggiunto che questa legge gioverebbe ai partiti, chiunque si trovi a governare. È un'ammissione in piena regola: questo stravolgimento della Costituzione serve a rendere la politica intoccabile dalle indagini della magistratura. Il disegno di Nordio e Meloni», hanno proseguito, «è chiaro: oggi la separazione delle carriere dei magistrati e la mordacchia dell'Alta Corte disciplinare, con quest'ultima e i due Csm pesantemente condizionati dai membri laici scelti dalla politica; domani i Pm sotto controllo del governo di turno».