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MATTEO SALVINI MINISTRO INFRASTRUTTURE
La Lega è sul sentiero di guerra. A Bari Salvini, che guida la carica, è riuscito a rubare la scena a sorella Giorgia e non è compito facile. Ma quello strillo volutamente triviale, «Fuori dalle palle i migranti che non rispettano la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra Costituzione», era fatto apposta per imporsi sulle prime pagine a scapito della più potente alleata e c’è riuscito perfettamente.
L’offensiva leghista è a tutto campo. Gli emendamenti del ministro leghista dell’Economia sono quelli del suo partito: mirano a cancellare l’aumento della tassa sugli affitti brevi e lì la vittoria del fronte Lega- Fi è già certa ma chiedono anche di allargare la platea interessata dalla “pace fiscale”, includendo anche tutti quelli con accertamenti in corso. A sorpresa, sempre da Bari ma non dal palco, il ministro dei Trasporti annuncia un imminente decreto, o forse più d’uno, su temi che dovrebbero non riguardarlo affatto: sicurezza e immigrazione. Giorgia Meloni di queste misure che il suo governo starebbe per varare non ne sa niente e la sorpresa non è che le abbia fatto tanto piacere.
Il ministro degli Interni Piantedosi, che si sa districare meglio di un democristiano d’annata, si affida al virtuosismo: «Io parlo sempre con Salvini, ci stiamo lavorando. L’attività legislativa è un cantiere sempre aperto. L’applicazione pratica delle norme che abbiamo varato richiede sempre una rifinitura». Una maniera elegante per dire che ne sa poco e s'impegna anche di meno.
L’assalto del vicepremier leghista si spiega in buona parte con l’approssimarsi delle elezioni nel Veneto. Per la Lega è essenziale raccogliere nella propria roccaforte quanti più voti possibile, tanti da tornare a essere primo partito superando Fratelli d’Italia. La presenza nelle liste di tutte le province dell’adorato doge Luca Zaia darà certamente una mano, anzi due, ma potrebbe non bastare. Per il capo è quindi necessario sgomitare e alzare i toni sino a conquistare massima visibilità.
Poi c’è il caso Vannacci. Il generale, dopo aver incassato quel mezzo milione di preferenze alle europee, doveva essere la carta vincente giocata per sfondare a destra. Il graduato però esonda, non è capace di prendere le misure dell’elettorato italiano, invece di proporre una destra anche estrema ma modellata su quella che ha vinto nella grande democrazia americana tira fuori dal cassetto ogni volta che ne ha l'occasione i cimeli del ventennio, che agli italiani anche più affezionati alla bandiera “Legge e Ordine” piacciono comunque poco e allontanano più elettori che quanti non ne richiamino.
Salvini, temendo comunque la concorrenza, ha mandato il nostalgico allo sbaraglio in Toscana, e pare che quello irritatissimo mediti di fare le valige, ma la casella resta vacante e Salvini s’incarica di occuparla in prima persona. Più che il Trump italiano, obiettivo in questo momento al di fuori della sua portata, si presenta come una sorta di Stephen Miller padano, paladino della “remigrazione”, pronto a lanciarsi nella crociata, di fatto annunciata a Bari, non solo per “fermare l'invasione” ma anche per rimandare a casa quanti più immigrati possibile, con speciali attenzioni per quelli di fede islamica: «L’Europa sta permettendo a troppi migranti soprattutto islamici di entrare nel nostro Paese e di distruggere il nostro tessuto valoriale e sociale». È ora che “remigrino”.
L’esito dell’ennesima sfida di Salvini è naturalmente incerto e lo è anche nella partita davvero dietro l’angolo, appunto quella del Veneto. La scelta di radicalizzare proposte e linguaggio però promette di avere comunque due conseguenze non trascurabili.
La prima è che Salvini, uscito vincente dal Congresso, senza più doversi preoccupare della concorrenza a destra di Vannacci e neppure, oltre certi limiti, di quella ben più temibile del “partito del nord” è destinato a restare in sella e in scena ancora per un pezzo. Il processo direttamente in Cassazione che lo aspetta l’ 11 dicembre gli offrirà un palcoscenico di prim’ordine e se non dovesse essere assolto ma rinviato a nuovo processo diventerebbe un totem per la destra sia italiana che europea.
La seconda conseguenza è che il governo Meloni, sin qui distintosi per posizioni tutt’altro che radicali e proprio per questo accettato dopo l’attimo di diffidenza iniziale con tutti gli onori in Europa, sarà costretto dall’onda trumpista esterna e dalla sua eco leghista all’interno a spingersi sempre più verso posizioni di nuovo estreme. In particolare proprio sui cavalli di battaglia di Salvini: sicurezza e immigrazione. Anzi, remigrazione.


