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Tiziano Manzoni ©
C’è un paradosso che attraversa la Lega e che ormai non si può più nascondere. Da un lato lo “standing” sempre più istituzionale di Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia che difende la manovra con un lessico da contabile europeo; dall’altro l’onda lunga del generale Roberto Vannacci, vicesegretario e militante mediatico che strizza l’occhio ai nostalgici del Ventennio e promette un libro apertamente revisionista. In mezzo, Matteo Salvini, chiamato ogni giorno a ricucire strappi che lui stesso ha contribuito a produrre elevando Vannacci a numero due contro lo scetticismo dei militanti storici.
Il perimetro di Giorgetti è chiaro e, soprattutto, coerente. Ribadisce che «il Governo è già intervenuto negli anni scorsi sui redditi più bassi, e ora tocca al ceto medio». Ricorda di aver «messo circa 18 miliardi l’anno scorso» e di averli «rimessi quest’anno per i redditi inferiori a 35 mila euro», rivendica lo «sforzo» fino a 50 mila e «aliquote ridottissime per redditi fino a 28 mila euro». È la grammatica della responsabilità: «far quadrare il cerchio con risorse limitate» in un contesto in cui «alle guerre armate si aggiungono quelle commerciali». Il messaggio è che la Lega, a via XX settembre, parla la lingua dell’Europa e difende le scelte di bilancio.
All’estremo opposto, Vannacci ha scelto di alzare l’asticella e di testare i confini del partito. Nel post che ha incendiato il dibattito offre «ripetizioni per chi la storia l’ha studiata nei manuali del Pd» e dipinge la marcia su Roma come «poco più di una manifestazione di piazza», Mussolini «incaricato» dal re, le leggi del 1938 «approvate dal Parlamento e promulgate dal Re». Poi rilancia: il 12 dicembre, a Parma, «potrei anche annunciare la scrittura del mio nuovo libro ‘La storia al contrario’».
Non è solo provocazione: è un’agenda parallela, che costringe la Lega a inseguire la polemica e a gestire la ricaduta nei territori. Su quel terreno Luca Zaia ha deciso di piantare una bandierina netta. «Non c’è alcun revisionismo storico da fare: le leggi razziali sono state il periodo più buio della storia italiana… siamo stati gli artefici di questa schifosissima pagina di storia». E a chi minimizza in nome dei voti parlamentari dell’epoca risponde: «Bene, allora vuol dire che ci sono stati un sacco di responsabili». Il governatore veneto prova a disinnescare la “vannaccizzazione” e ribadisce che l’identità leghista non può scivolare nella nostalgia del Ventennio.
Nel mezzo, Salvini ondeggia. Da Bari prende le distanze dal revisionismo: «Il fascismo è stato archiviato e sconfitto dalla storia». Ma subito prova a cambiare campo: «La priorità è la pace fiscale», con l’idea di «allargare la rottamazione anche a chi ha accertamenti in corso», e un pacchetto «ordine pubblico e sicurezza» con «più poliziotti» e «più carabinieri». Annuncia che «la Lega sta lavorando a un nuovo decreto su sicurezza e immigrazione», e intanto marca il dissenso sulla difesa: «Non è la mia legge di bilancio dover trovare miliardi per comprare missili, carri armati e sommergibili». Il doppio registro è evidente: rassicurare il fronte identitario e al tempo stesso non rompere definitivamente con il ministro dell’Economia.
Il problema è che le tre traiettorie oggi non si ricompongono. C’è un filone nostalgico-folkloristico alimentato dal Generale, c’è l’asse istituzionale ed europeista che fa capo a Giorgetti, e c’è il nordismo amministrativo che misura ogni scelta con il metro dell’autonomia. Dopo la debacle toscana e la censura di via Bellerio all’associazione che fa capo a Vannacci, il rapporto tra leader e vicesegretario appare logoro. Ogni nuova provocazione sembra una prova di forza per il segretario che lo ha voluto al vertice: accettare la sfida significa pagare dazio a Bruxelles e nelle aule parlamentari; respingerla significa ammettere un errore di valutazione politica.
Intanto la cronaca impone decisioni rapide sulla manovra. Giorgetti chiede disciplina e mette in fila i numeri; Salvini rilancia su pensioni e pace fiscale, promette di “migliorare” il testo in Parlamento e di estendere gli sconti a «quindici milioni di italiani» alle prese con cartelle di vecchia data. Sullo sfondo resta la concorrenza a destra e la frustrazione del Nord, che vede rallentare il cantiere dell’autonomia. La Lega è idealmente divisa in tre tronconi e il segretario deve tenere insieme establishment e pancia del Paese. Finché il calcolo elettorale reggerà, l’ambiguità potrà ancora funzionare; ma la combinazione è instabile.
La verità è che questa convivenza non può durare: ogni uscita di Vannacci obbliga Salvini a smentire o rincorrere, ogni cifra di Giorgetti impone limiti che il capo vorrebbe aggirare. Prima poi qualcuno pagherà.


