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Francesco Giorgi ed Eva Kaili coinvolti nell'inchiesta "Qatargate"
Doveva essere la Tangentopoli europea. Michel Claise, il giudice istruttore dell’inchiesta, il Di Pietro belga che inchiodava i politici brutti e cattivi, necessariamente autori delle peggiori nefandezze. Ma a tre anni dagli arresti che hanno scosso Bruxelles e fatto esplodere il caso Qatargate, di quell’indagine sembra non essere rimasto nulla.
Per mesi l’Europa ha vissuto sotto il bombardamento mediatico di una storia apparentemente perfetta: valigie piene di contanti, eurodeputati venduti, la democrazia europea messa all’asta alla vigilia dei Mondiali di calcio 2022. Il termine “Qatargate” era diventato sinonimo di corruzione sistemica e ha distrutto carriere, riempiendo le prime pagine dei giornali e alimentando campagne moralizzatrici. La presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola aveva parlato di «democrazia europea sotto attacco». Ma l’attacco, forse, ha connotati molto diversi da quello che sembrava.
Tutto inizia esattamente tre anni fa, il 9 dicembre 2022, quando la magistratura belga effettua una serie di arresti e perquisizioni che scuotono il Parlamento europeo. L’accusa è pesantissima: alcuni eurodeputati e funzionari avrebbero ricevuto denaro e favori dal Qatar e dal Marocco in cambio di pressioni politiche e voti favorevoli ai due Paesi all’interno delle istituzioni Ue.
Al centro dell’indagine c’è l’ex eurodeputato italiano Pier Antonio Panzeri, che si autoaccusa e diventa “super pentito”, raccontando di aver costruito una rete di lobbying illegale con ramificazioni tra Ong, funzionari e politici. Tra gli arrestati finiscono nomi di primo piano: Eva Kaili, allora vicepresidente del Parlamento europeo, e il suo compagno Francesco Giorgi, assistente parlamentare e braccio destro di Panzeri. Gli arresti avvengono proprio nella giornata internazionale contro la corruzione. Una scelta di tempi e parole che non dev’essere parsa casuale soprattutto agli indagati, i cui nomi e volti finiscono sui giornali di tutto il mondo in un batter d’occhio.
Kaili perde subito l’immunità, col Parlamento che la scarica solo sulla base delle notizie di stampa. Lei e Giorgi vengono detenuti per mesi, minacciati di vedersi portare via la figlia senza una confessione, diventando bersaglio di una narrazione mediatica che li presenta da subito come colpevoli. Le immagini dei borsoni pieni di contanti trovati in casa loro - ma appartenenti a Panzeri - fanno il giro del mondo, consolidando l’idea di un crimine evidente. Ma col passare del tempo, emergono falle sempre più profonde nell’impianto accusatorio.
Grazie alle indagini difensive, vengono alla luce 40 scatoloni di prove rimaste sconosciute per oltre un anno. Ma il clamore mediatico, una volta che la parola passa agli indagati, si spegne. Indagati a lungo zittiti, con tanto di ordinanza di un Tribunale ( poi ritenuta illegittima) che ha messo il bavaglio pure agli avvocati. Tutto apparentemente normale in un sistema giudiziario, come quello belga, dove si può rimanere in custodia cautelare a tempo indeterminato, senza prove, in attesa di trovarne qualcuna, in celle che fanno impallidire pure il cosiddetto terzo mondo.
La narrazione che ha caratterizzato il Qatargate è stata devastante: veline su veline contenenti pure bugie, come quella secondo cui Giorgi avrebbe accusato la moglie Kaili,
di fatto confermando i sospetti su di lei. Tutto falso: Giorgi ha solo accusato se stesso sotto la minaccia di non rivedere più la figlia. Ma da quella stanza, in cui erano presenti soltanto giudici, magistrati, avvocati e indagati, la notizia è finita sulle prime pagine di tutti i giornali in un altro modo: Giorgi, per tutti, aveva venduto sua moglie agli inquirenti.
A tre anni dagli arresti, il procedimento è ancora in fase di istruttoria e nessun processo è iniziato. Diverse intercettazioni sono state ignorate o non verbalizzate, numerosi atti sono stati secretati e le modalità delle perquisizioni – così come la partecipazione della polizia in borghese a riunioni parlamentari – hanno sollevato interrogativi gravi sul rispetto delle regole democratiche. In parallelo, è emerso il ruolo dei Servizi segreti belgi, accusati di aver spiato parlamentari europei e monitorato attività politiche interne senza le necessarie autorizzazioni. Un’ingerenza senza precedenti che ha fatto gridare alla violazione della sovranità del Parlamento.
Oggi quella storia sembra ridotta in cenere. E nonostante il grande clamore, prove concrete di questo teorema sembrano non essercene. La giustizia belga ha pure scelto di non perseguire i presunti corruttori, ovvero i politici di Qatar e Marocco, affidandoli alla giustizia di casa loro. Mentre il denaro trovato nelle famose valigie sembra sempre più il frutto di consulenze non dichiarate al fisco, come Panzeri - ritenuto dalla procura belga al vertice del sistema ammise fin dal primo momento, salvo poi cambiare versione dopo aver saputo dell’arresto di moglie e figlia. Ora, la procura di Milano lo ha ora iscritto nel registro degli indagati per calunnia, a seguito di una denuncia presentata da Giorgi e Kaili.
Ora l’ennesimo capitolo della vicenda, forse il più grave, con l’ipotesi di un’operazione orchestrata da settori deviati della giustizia e della polizia belga, con la complicità di servizi di intelligence e di una parte della stampa, che avrebbe fabbricato lo scandalo e estorto confessioni sotto pressione. I cacciatori di corrotti sono diventati gli imputati.
Tasiaux è oggi accusato formalmente di violazione del segreto e accesso abusivo a banche dati, con misure cautelari che ne impongono il divieto di contatto con i giornalisti. Queste gravissime violazioni saranno sollevate dagli avvocati nelle udienze previste dall’ 8 al 12 dicembre, con probabilità altissime – secondo giuristi belgi – che l’intera inchiesta Qatargate venga dichiarata irrimediabilmente viziata e archiviata. Ciò porrebbe definitivamente fine alla leggenda del «più grande scandalo di corruzione d’Europa».


