Avviso ai naviganti, si diceva un tempo. Allo sforzo delle Camere penali di recuperare una centralità mediatica nel dibattito sul referendum del marzo prossimo venturo, corrisponde il progressivo ammutolirsi dei rappresentanti politici del fronte del “si” che hanno, finalmente direbbe qualcuno, percepito che intestarsi l’approvazione della legge costituzionale sulla separazione delle carriere è cosa rischiosa assai. Lo si è segnalato - non da soli ovviamente, ma neppure per ultimi - che se il referendum assume connotazioni squisitamente o prevalentemente politiche, la partita potrebbe volgere al peggio per i disegni riformatori e nel fronte del “no” potrebbero tranquillamente trovare spazio intenzioni punitive verso il governo in carica di cui sarebbe sciocco non misurare o ponderare la rilevanza negli umori del paese.

Tra spinte interventiste e controspinte immobiliste, quote della maggioranza potrebbero impallarsi e mandare un messaggio poco convincente alla pubblica opinione. Quanto a questa, è lecito prevedere che – con questi chiari di luna – già portare alle urne di marzo un 40% degli aventi diritto al voto sarebbe un successo strepitoso. Oggi i sondaggi danno cifre favorevoli al “si”, ma se si legge nei sottotitoli dei risultati si vede che le proiezioni sono state fatte immaginando (forse sognando) un’affluenza al voto del 56%; un dato che oggi appare irrealistico, a vedere la partecipazione alle ultime tornate, ben più importanti della separazione delle carriere. Più basso sarà il quorum, maggiori le possibilità che un fronte del “no” – politicamente motivato – possa vincere la partita del referendum.

Quindi, come si diceva, la politica tende a defilarsi (con rare eccezioni) sia da un fronte che dall’altro, in un gioco degli specchi per cui ciascuno attende che sia l’avversario a dissotterrare l’ascia di guerra e a partecipare effettivamente all’agone del voto.

Nel frattempo, Anm e Camere penali, segmenti diversi (ma sempre autorevoli) dell’accademia penalistica e processualpenalistica si danno battaglia a colpi di interviste, di dibattiti televisivi (pochini) e di comunicati (tantini); se i diretti interessati mostrano poca voglia di confrontarsi e di pugnare, non si capisce perché la pubblica opinione dovrebbe considerarsi investita di sacro furore e sgomitare per entrare ai seggi.

Certo un confronto puramente tecnico-giuridico sui contenuti veri della legge costituzionale sarebbe la strada maestra, ma insomma si risolverebbe in cavillose, quanto soporifere narrazioni. Quindi, purtroppo, la via che si sta percorrendo resta un po’ quella della truffa delle etichette secondo cui, per il fronte del “si”, la riforma porterà alla fine di soprusi, alla stagione della giustizia giusta, all’avvento della vera parità e all’epifania della luminosa terzietà del giudice; mentre, secondo il fronte del “no”, la collocazione del pubblico ministero in un circuito di autocrazia irresponsabile (Ferrua), non potrebbe che concludersi con l’assoggettamento dello stesso al potere esecutivo e anche con una certa fretta.

Sono due estremismi, ma che hanno un punto di visione in comune: entrambi ritengono che la riforma costituzionale sia solo una “pasqua” ebraica, un passaggio; per alcuni verso la terra promessa del giusto processo, per altri verso la trappola del controllo politico; a entrambi occorre ricordare, non solo, che la storia di Mosè si concluse per il diretto interessato non proprio bene e furono necessari agli ebrei 40 anni di peregrinazione nel deserto per vedere la terra di Jahvè (ossia quanti a occhio e croce sarebbero indispensabili per il formarsi, dopo decenni di promiscuità, di una cultura del giudice distinta da quella del pubblico ministero, ammesso che sia possibile e giusto), ma anche invero che in ogni cosa alcune delle soluzioni prospettate avevano e hanno un sostegno non marginale anche tra le toghe.

Nelle prossime settimane si vedrà quanto impegno sarà profuso nella battaglia dall’Anm che, per il momento, ha correttamente rifiutato un confronto televisivo con il ministro Nordio non potendo correre il rischio di connotarsi irrevocabilmente con una forza di opposizione politica. Quanto alle Camere penali l’impegno di tutte le sue componenti appare ingente e di notevole livello, anche se resta in ombra un punto centrale: ossia quello di una radicale, ab imis fundamentis, rifondazione del processo penale sia in caso di vittoria del “si” che del “no”; perché non può e non dovrebbe sottacersi che non è stata proprio la comune appartenenza di pm e giudici al medesimo ordine (in cui convivono congelati nei rispettivi ruoli, vista la pratica inesistenza di transiti da una funzione all’altra) ad aver cagionato le storture e le vittime di cui si discute, ma un processo incapace di realizzare l’effettiva parità tra le parti, progressivamente imbottito spesso, su spinta degli stessi avvocati e dell’accademia - di dozzine di precauzioni e minute garanzie, rivelatesi insufficienti, quando non meramente simboliche (v. le regole della Cartabia sull’iscrizione nel registro delle notizie di reato). Ricostruire il processo, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, è un’opera a cui nessuno attende e di cui si sussurra soltanto, anche per la difficoltà di immaginare una nuova via al processo accusatorio.

I sostenitori del “si” ritengono che solo sulla pietra della riforma costituzionale potrà edificarsi una nuova giustizia; qualche fautore del “no” pensa che un pubblico ministero isolato e incupito dall’obiettivo declassamento ordinamentale (non costituzionale, anzi) non sia il soggetto migliore cui affidare le sorti di un nuovo processo. Insomma, si naviga a vista per acque perigliose.