Lunedì 29 Dicembre 2025

×

Ma sul caso Cioni dico: oggi siamo liberi di gestire il fine vita senza “l’accabadora”

Il gesto dell’uomo graziato da Mattarella per l'omicidio della moglie malata ricorda la figura mitica sarda evocata da Michela Murgia, prima della svolta della Consulta sull’aiuto a morire

29 Dicembre 2025, 16:25

fine vita

L’Accabadora è una figura mitica della tradizione sarda: colei o colui che, su richiesta consapevole del malato irreversibile, afflitto da incontenibili dolori, dava la “buona morte”. È quanto ci racconta Michela Murgia nel suo celebre libro del 2009, intrecciando temi etici profondi, storie di vita e di morte nella tradizione di una Sardegna rurale. Quando Murgia scrive, non esisteva ancora la possibilità di una sedazione profonda (Legge 219/2017 ), né tantomeno una sentenza della Corte costituzionale che consentisse l’aiuto al suicidio medicalmente assistito.

Franco Cioni ha condiviso con la moglie, Laura Amidei, cinquant’anni di vita, e quando è divenuta una malata terminale, con sofferenze ritenute incontenibili, non è stato in grado di non accelerare la sua morte soffocandola. Un “omicidio pietoso” che aveva, comunque, implicato il reato di omicidio del consenziente (articolo 579 del codice penale) ed una condanna a circa sei anni di detenzione.

Il Presidente della Repubblica gli ha concesso in questi giorni la grazia. Un atto di clemenza, un atto di perdono. Un atto sempre raccomandabile, perché il perdono, come ci fu insegnato da chi nacque il giorno di Natale, non dovrebbe essere negato a nessuno. Un perdono che, come ci ha spiegato sul Dubbio Chiara Lalli, ha comunque diverse motivazioni quando viene tolta la vita a chi soffre nel morire: ragioni morali e sociali, l’accudimento della moglie negli anni precedenti l’omicidio fin dal 2016, il valore morale che viene riconosciuto con l’interruzione della sofferenza di qualcuno malato in modo grave e irreversibile.

Secondo l’avvocato di Franco Cioni, Simone Bonfante, «questa sentenza ha riconosciuto un’idea condivisa nel considerare un valore morale l’interruzione della sofferenza di qualcuno malato in modo grave e irreversibile». In pratica, come troviamo scritto su altri giornali, Cioni uccise la moglie malata, spinto da “amore pietoso” dopo anni di dedizione. Tutto ciò crea certo dei precedenti di innocenza e fa pensare che non vi siano altre alternative per porre fine alla sofferente esistenza di una persona amata.

Non serve certo la possibilità di una sedazione profonda, o l’aiuto al suicidio medicalizzato e, qualora non ricorrano i requisiti, la possibilità, come fece DJ Fabo, di recarsi in Svizzera. Siamo in pratica ritornati all’accabadora che, all’epoca del bel libro della Murgia non aveva altre soluzioni a fronte della richiesta del malato terminale, desideroso di porre fine alla propria esistenza, sebbene consapevole di essere soffocato. Ma qui la storia presupponeva un incontro di due volontà: l’accabadora da un lato, il malato terminale dall’altra e quest’ultimo era ben consapevole quali sarebbero state le modalità della sua morte. Nella vicenda Cioni non si hanno notizie sulle modalità con cui la propria moglie avrebbe avuto desiderio di cessare la sua esistenza. Dubitare che non vi siano alternative a fronte di malattie incurabili, come scrive Chiara Lalli, è «condizione pericolosa», si dovrebbe avere almeno la possibilità di «poter sfuggire a quel destino. Ognuno secondo i propri desideri già compressi e ristretti».

Certo, le normative in merito al consenso informato, il rifiuto a qualsiasi genere di trattamento sanitario, l’aiuto al suicidio medicalizzato, oggi fatto proprio normativamente da diverse Regioni, sebbene ristringa le modalità di porre fine alla propria esistenza, sono alternative legali che ci impediscono la condizione di continuare a vivere e ci allontanano dal rischio del reato dell’omicidio del consenziente. Sono anche mezzi legali che i medici possono applicare senza dover aggiungere dolore a quello già vissuto dal paziente.

Cioni invoca oggi il Parlamento per una legge sull’eutanasia che si occupi di malati terminali, lasciati soli. Ma, quanto già abbiamo ottenuto con la normativa più recente, anche se non pienamente realizzata dal Parlamento, ci ha reso più liberi di poter gestire il nostro fine vita. Questo ha anche consentito l’aiuto al suicidio: una richiesta non semplice che evidenzia delle problematiche etiche. Soprattutto il medico, che non fa obiezione di coscienza, sa di essere coinvolto in una pratica che può comportare un cambiamento di paradigma in merito alle sue più tradizionali funzioni e ritenere che l’aiuto a morire può rientrare tra i compiti professionali del medico e del personale sanitario.

In questi casi la disponibilità del medico ad assecondare la richiesta di morire nasce dal primum non nocere, ossia dal dovere che impone di non causare nocumento e di contenere il dolore. In questa prospettiva si osserva che la medicina non è una attività tecnica e neutra, ma pratica informata a un’etica che privilegia sia il rispetto dell’autonomia dell’interessato, sia la lotta alle sue sofferenze, sia la necessità di uscire da una vita che per il malato ha perso ogni dignità. Uscire dalla vita non significa necessariamente essere soffocati da chi ci ama.