Il 22 dicembre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato cinque decreti di grazia, come previsto dall’articolo 87 della Costituzione. Tra quei cinque c’è Franco Cioni, «nato nel 1948, condannato a sei anni, quattro mesi e venti giorni di reclusione per il delitto di omicidio volontario della moglie, affetta da malattia in stato terminale e con la quale era sentimentalmente legato da cinquanta anni, commesso nell’aprile del 2021. Nel concedere la grazia che ha estinto l’intera pena detentiva ancora da espiare (pari a cinque anni e sei mesi di reclusione) il Capo dello Stato ha tenuto conto dei pareri favorevoli, formulati dal Procuratore Generale e dal Magistrato di sorveglianza, delle condizioni di salute del condannato, dell’intervenuto perdono da parte della sorella della vittima e della particolare condizione in cui è maturato l’episodio delittuoso».
Cioni era stato condannato l’anno scorso. Laura Amidei era malata terminale e il suo omicidio sembrerebbe rientrare più negli omicidi pietosi che nei femminicidi (a meno che non vogliamo usare come criterio di femminicidio il mero omicidio di una donna, indipendentemente dalle motivazioni). I giudici hanno concesso le attenuanti generiche e quella dei motivi morali e sociali. È stata anche considerata la condotta di Cioni negli anni precedenti l’omicidio. Dedizione e accudimento dall’inizio della malattia nel 2016, come anche testimoniato dal medico di Amidei e dalla sorella. Un futuro che si restringe irrimediabilmente e una sofferenza che non si riesce più a contenere. Il rischio di non poterla più assistere a casa e la contrarietà di Amidei a questa ipotesi. Dopo l’omicidio, Cioni aveva chiamato i carabinieri e si era denunciato.
Secondo il suo avvocato, Simone Bonfante, questa sentenza aveva riconosciuto un’idea condivisa nel considerare un valore morale l’interruzione della sofferenza di qualcuno malato in modo grave e irreversibile (lo scrive Valentina Reggiani sul Resto del Carlino il 2 febbraio 2024, «Sentenza Cioni, i giudici: “Uccise la moglie malata spinto da amore pietoso dopo anni di dedizione”»).
È una storia terribile. Ed è difficile immaginare cosa avremmo fatto noi o cosa si sarebbe potuto fare di diverso o prima (la sedazione palliativa profonda, la richiesta di aiuto al suicidio?). Certamente ci costringe a fermarci su alcuni dettagli – che non lo sono affatto – che troppo spesso nella foga punitiva e vendicativa tendiamo a dimenticare. Perché questo è un meccanismo comune, che va dalle risse social ai casi di omicidio: finché succede a qualcun altro, non succede a noi. E troppo di rado facciamo lo sforzo di invertire questo inutile senso di superiorità: se succedesse a noi? Che non è la stupida e feroce versione dell’identitarismo.
Non serve e non basta essere o aver fatto qualcosa per capire la disperazione e l’assenza di alternative. Ma dicevo i dettagli: il contesto e le intenzioni. Che richiedono tempo e la pazienza di non fermarsi all’ultimo atto di una catena di avvenimenti e di circostanze. Nemmeno un omicidio è mai solo un omicidio. O meglio, la sua considerazione non può essere slegata dal contesto e dalle intenzioni. È ovvio e sembra sciocco doverlo dire, ma stanno lì tutte le differenze importanti. D’altra parte anche la legittima difesa è un omicidio.
E poi c’è quell’altro dettaglio del senso della condanna e della detenzione. Forse avrei chiesto anche io di morire. Forse non soffocata perché sono fifona e il rischio di soffrire mi avrebbe terrorizzato. Forse avrebbero potuto provare a chiedere aiuto o a chiedere qualcosa di diverso? Forse lo hanno fatto e non è stato abbastanza.
È terribile non avere o pensare di non avere alternative. Ed è la condizione più pericolosa. Se le malattie sono a volte inguaribili e ci costringono a un destino che non possiamo cambiare, dovremmo avere almeno la possibilità di poter sfuggire a quel destino. Ognuno secondo i propri desideri, già compressi e ristretti.