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Gabriele Cagliari
«A i miei compagni di cella. 4 luglio ’ 93. Cari Ranieri e Vittorio, non preoccupatevi: è un suicidio in piena regola. Lo dichiaro in piena lucidità e capacità di intendere e volere. Intendo con questo evitare conseguenze per questo mio atto di cu non avete alcuna responsabilità. Vi ringrazio per la compagnia. Cella 102, V raggio».
Poi, dopo aver lasciato in bella mostra il biglietto, Gabriele Cagliari andò alle docce, mise la testa in un sacchetto di plastica – quello aveva, per suicidarsi – e si lasciò mancare l’aria. Il pm che lo aveva interrogato per l’ennesima volta gli aveva negato per l’ennesima volta la libertà, dopo aver lasciato intendere che invece, forse; poi, se n’era andato in vacanza. A Cagliari sembrava d’essere trattato «come un cane».
Scrisse in una lettera ai familiari: «Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti, sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile».
Anche Angelo Burzi, l’ex consigliere regionale e fondatore di Forza Italia in Piemonte, che si è suicidato ieri l’altro dopo la definitiva condanna per “Rimborsopoli” ha scritto alcune lettere – alla moglie, alle figlie e a un gruppo di amici fidati. Deve averle preparate nei giorni precedenti, scritte con calma, con lucidità. Deve averle nascoste, per evitare che qualcuno le scoprisse. Poi, ha declinato un invito a cena in casa di parenti, a Biella, la vigilia di Natale, a cui invece la moglie è andata, ha preso la 357 Magnum, regolarmente detenuta – quello aveva, per suicidarsi – si è chiuso in bagno, e si è sparato. Prima però ha chiamato il 112 – chiedendo ai carabinieri di fare presto a venire, che non voleva fosse la moglie a scoprirlo.
Il figlio di Cagliari ha raccolto tutta la corrispondenza scritta dal padre in carcere e ne ha fatto un archivio “pubblico” online. Ci sono anche gli interrogatori e le poesie che scrisse in quei quattro mesi: «Prigione # 3. Passo e ripasso sulla mia orma / come il giaguaro imprigionato / che non ha pensiero ma ossessione: / feretro viola della mia pazzia. / “De profundis clamavit ad te” / a questa profondità ti chiamo / e ti richiamo anima del mondo. / Tu che ora tieni la falce alle mie spalle. Aprile 1993». Ma c’è anche: «Il giorno 9.3.93 alle ore 13.50 presso la Casa Circondariale di Milano S. Vittore, avanti a me, dr. Gherardo Colombo, Sostituto procuratore della Repubblica in Milano, è presente: CAGLIARI GABRIELE, in atti già generalizzato. ADR: Intendo rispondere. Confermo quanto ho dichiarato al GIP nell’interrogatorio di oggi».
Non sappiamo cosa vorrà fare e quando, la signora Giovanna Perino, moglie di Burzi, delle lettere del marito, se renderle pubbliche – «Si è ucciso perché si sentiva innocente, lo ha fatto perché era innocente», ha detto – e potremmo capire il pudore. L’ex governatore del Piemonte Roberto Cota, destinatario di una lettera, che con Burzi era finito nell’inchiesta e come lui è stato condannato, ha detto che Burzi ricostruisce tutta la sua vicenda giudiziaria. Io credo che queste lettere siano, in qualche modo, un “documento collettivo”, pubblico, come pubbliche sono state le vicende politiche e giudiziarie a cui fanno riferimento. Il suicidio di Burzi, come già quello di Cagliari, non è un “fatto privato”. Interroga tutti noi. Dovrebbe.
Sergio Moroni, deputato socialista travolto da Tangentopoli e che si suicidò il 2 settembre del 1992 con un fucile – quello aveva, per suicidarsi – nella cantina del condominio dove abitava, scrisse anche lui delle lettere prima del “gesto” ( «Quando la parola è flebile, non resta che il gesto» ). Una era indirizzata al presidente della Camera, Napolitano, e comincia così: «Egregio Signor Presidente, ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita».
E si sofferma su un punto che a me sembra ancora centrale: «Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari ( in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna». Beh, non è andata così. E il suicidio di Burzi, trent’anni dopo, sta qui a mostrarcelo.
Certo, Rimborsopoli non è Tangentopoli – che fu un vero sconquasso della vita e della società politica. Eppure, nei suicidi di Cagliari e Moroni e Burzi, ritroviamo la medesima disperazione, il medesimo senso di ingiustizia, la medesima sensazione di essere «come cani ricacciati ogni volta al canile». Dovremmo chiederci tutti che cosa è successo, nel rapporto tra politica e magistratura, in questi trent’anni. Che cosa sta succedendo ancora. E ancora.