«È un artifizio tecnico, che però svela il senso politico di Mani pulite». Ugo Intini è stato direttore dell’Avanti, portavoce del Psi craxiano, dirigente combattivo in un partito travolto dalla “rivoluzione” del ’ 92. Riflette sull’espediente inventato dal Pool di Milano per consegnare sempre a un unico gip, Italo Ghitti, tutte le richieste di misure cautelari.
Un “trucco” rivelato, in un articolo sul Dubbio, dal giudice Guido Salvini: venne creato un «registro», utilizzato impropriamente come un «fascicolo» unitario per tutti i filoni d’inchiesta, e dotato di un «numero con cui iscriveva qualsiasi novità riguardasse tangenti», ha raccontato Salvini, oggi come allora in servizio all’ufficio gip di Milano. «Salvini contribuisce ad avvalorare una tesi ormai inconfutabile: Mani pulite fu un’operazione politica, ispirata», dice Intini, «all’idea che della politica si potesse fare a meno, e che perciò fosse necessario e opportuno radere al suolo i partiti della Prima Repubblica».
Nell’intervento sul Dubbio, Salvini non esita a notare come il «gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool». Diversi altri quotidiani hanno ripreso in questi giorni l’intervento del magistrato milanese.
Ieri, per esempio, il Giornale lo ha ricollegato alla vicenda di Davide Giacalone, allora braccio destro di Oscar Mammì: Giacalone fu arrestato su richiesta del Pool, subito accolta da Ghitti, e poi prosciolto addirittura in udienza preliminare «Il sistema della Procura di Milano di scegliersi i giudici delle indagini preliminari», ha raccontato Giacalone al Giornale, «era noto già ai tempi. Ma che si fosse arrivati al punto rivelato dall’articolo del giudice Salvini allora non ebbi alcuna contezza, né la ebbero i miei avvocati».
Non mi meraviglio. Il silenzio sulle forzature tecniche compiute dal Pool si spiega con l’assoluto sostegno assicurato, a quei pm, dai giornali, ridotti a ufficio stampa della Procura. Rientra appieno nella logica da golpe strisciante in cui si inserì l’inchiesta del ’ 92.
Vede, se un ufficio inquirente arriva a forzare le regole organizzative interne alle Procure pur di consegnare sempre allo stesso gip, evidentemente in sintonia coi pm, le richieste cautelari, è chiaro che c’è una determinazione politica rispetto a quell’iniziativa giudiziaria. Una determinazione chiara nel perseguire non ipotesi di reato ma un preciso obiettivo: annientare i partiti della Prima Repubblica. Ed è un disegno, ritenuto giusto dai pm milanesi di allora, che si inserisce perfettamente nel disegno più generale di annichilimento della politica, emerso all’epoca non solo in Italia ma in tutto l’Occidente.
Fukuyama, politologo americano, teorizzò che con la caduta del comunismo si fosse arrivati alla fine della storia, dunque all’esaurirsi delle funzioni proprie della politica. Se la politica è inservibile, restano solo i poteri economici, indisturbati. Ci si doveva sbarazzare dei partiti. Avvenne anche in altri Paesi, ma in nessuno si verificò, come da noi, una vicenda giudiziaria oggettivamente rivoluzionaria, in un quadro generale da golpe strisciante. La giustizia non funzionò in modo imparziale: fu condizionata da quell’obiettivo.
È più corretto dire che dopo i primi successi, dopo il clamore suscitato dai primi passi dell’inchiesta, i magistrati della Procura di Milano si sentirono spinti ad andare avanti lungo quella strada, a perseguire l’obiettivo dell’annichilimento. Mi riferisco al favore dell’opinione pubblica, ma anche dei grandi giornali. La grande stampa condivideva certo non a caso uno schema in cui i vecchi partiti avrebbero lasciato posto al dominio del mercato.
Moltissimo. Una cosa era chiara a tutti: gli equilibri precedenti, basati sul rapporto fra politica e sistema produttivo, non reggevano più. Gli stessi imprenditori si convinsero che della politica ci si potesse liberare. Ne ho fatto un libro, nel 2001: La privatizzazione della politica. Fu un ’ 68 rovesciato.
Il ’ 68 fu ispirato a solidarismo e comunitarismo. Nel ’ 92 si impose una rivoluzione dell’individualismo e del liberismo. Con una rottura, com’era avvenuto un quarto di secolo prima. Ma di segno del tutto diverso.
C’erano forzature tecniche anche di altra natura, a cominciare dall’upgrading del finanziamento pubblico trasformato in corruzione, e della corruzione elevata a concussione.
È un magistrato già noto per il coraggio, per la capacità di assumere posizioni controcorrente rispetto al resto della magistratura. Penso a quanto disse a proposito delle trame nere o dell’assassinio Tobagi. Ma fra i magistrati la maggioranza, a mio giudizio, condivide la critica all’esercizio autoreferenziale della funzione requirente. Peccato questa maggioranza sia ostaggio di un’agguerrita minoranza, tuttora dominante nell’Anm e, in generale, nell’ordine giudiziario.