La trattativa Stato-mafia non solo non è più presunta, ma non c’è mai stata. La Corte di Cassazione ha annullato – senza rinvio - la sentenza d’appello, riformulando l’assoluzione nei confronti degli ex Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Da “Il fatto non costituisce reato”, gli ermellini li hanno definitivamente assolti con “non hanno commesso il fatto”. Quindi non solo sono innocenti, ma non hanno veicolato alcuna minaccia mafiosa nei confronti dei governi Amato e Ciampi. Ricordiamo che il capo d’accusa è infatti “minaccia al corpo politico dello Stato”.

Un teorema che ha fatto acqua da tutte le parti fin dall’inizio. E infatti ha perso i pezzi durante questo decennio di travaglio giudiziario pompato mediaticamente. I politici della Prima Repubblica, quelli che secondo la tesi giudiziaria avrebbero dato l’avvio alla trattativa per garantirsi l’incolumità dalla mafia corleonese, sono stati assolti già dal primo grado. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto fino in Cassazione per non aver commesso il fatto. Mentre l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato scagionato in primo grado per non aver commesso falsa testimonianza. L’unico politico imputato rimasto è quello della Seconda Repubblica. Parliamo dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, colui che avrebbe proseguito, al posto dei Ros, la trattativa: in quel caso, la vittima sarebbe stato il governo Berlusconi. Assolto con formula piena in secondo grado e confermata dalla Cassazione.

Poi ci sono gli imputati mafiosi: Totò Riina e Bernardo Provenzano che nel frattempo sono morti, e Leoluca Bagarella. Mentre è già uscito di scena, perché assolto in primo grado, il mafioso pentito Giovanni Brusca. La corte d’Appello ha fin da subito dichiarato prescritto il reato di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Sia Brusca che Ciancimino, usciti incolumi dal processo, sono stati i testimoni chiave che hanno permesso di avviare il processo trattativa. Senza di loro, il processo non si sarebbe mai potuto imbastire. E di fatto, le loro tesi sono stati già smontate da vari giudici: Ciancimino è risultato contraddittorio, calunnioso e anche fabbricatore di una prova rivelatasi una patacca: il fantomatico “papello di Riina”. Poi c’è Brusca che – come hanno evidenziato i giudici di primo e secondo grado che assolsero Mannino - si è fatto chiaramente suggestionare dalle notizie, dai processi in corso e non per ultimo da chi lo interrogava.

Il giornalismo non è cinema, bisogna raccontare i fatti scremati dalle suggestioni e tesi giudiziarie inconcludenti che hanno causato un danno enorme all’opinione pubblica. Ma non solo. Hanno infettato il dibattito politico su argomenti importanti, seppur divisivi, sul funzionamento dello Stato di Diritto. Sono nati addirittura movimenti politici, pensiamo al Movimento Cinque Stelle, che ne hanno tratto linfa vitale per la propaganda populista giudiziaria. Ma pensiamo anche a destra che usa la storia totalmente infondata del non esistente “papello di Riina” per affermare la necessità o addirittura l’indurimento del 41 bis.

La lotta alla mafia, soprattutto negli anni terribili delle stragi, necessitava non solo del coraggio, ma anche della competenza. Dopo la strage di Capaci e subito dopo quella di Via D’Amelio ci fu un momento di gravissima crisi dello Stato. Tutto era fermo, la procura di Palermo di allora era gravemente lacerata dai problemi interni, veleni, alcune opacità mai del tutto chiarite ancora oggi. Tutti hanno in mente le parole del magistrato Antonino Caponnetto: «È finito tutto» disse a un giornalista, uscendo dall'obitorio dopo l'ultimo saluto a Paolo Borsellino. In quel frangente, tra le due stragi inaudite ordite dai corleonesi, l’allora generale Mario Mori decise di fare un salto di qualità nelle indagini antimafia. Di fatto lui era il responsabile a livello nazionale del reparto criminalità organizzata dei Ros. Decise, quindi, una strategia in due tempi: sensibilizzare i suoi ufficiali per avere fonti confidenziali di maggiore qualità e creare una struttura per la cattura dei latitanti, tra cui in particolare Totò Riina.

Quest’ultimo non solo perché era il capo di Cosa nostra, ma anche perché l’allora maresciallo Antonino Lombardo gestiva una fonte che aveva riferito una buona strada per arrivare a Riina, dicendo che "tutte le strade per catturarlo passavano per la Noce, i Ganci e i fratelli Sansone, clan dell’Uditore". Mori dette l'incarico all'allora capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, per il primo gruppo. Cosa che poi, grazie anche al coordinamento di altri elementi sopravvenuti come la cattura in Piemonte dell’ex autista Di Maggio (utile solo per il riconoscimento del capo dei capi) da parte dell’allora generale Delpino, si arrivò alla cattura di Riina. Ogni tassello è stato fondamentale per concludere l’operazione dei Ros.

Per quanto attiene alla ricerca di nuove e più qualificate fonti, l’allora capitano Giuseppe De Donno disse a Mori di aver già indagato su Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, per due indagini che portarono all'arresto dello stesso, e alla condanna in via definitiva per associazione semplice. Sempre all'inizio del 1992 Ciancimino fu condannato per associazione mafiosa. Si trovava, dunque, in una situazione in cui i Ros pensavano che potesse diventare una buona fonte, anche per i suoi rapporti sia con la politica che con Cosa nostra. Così De Donno fu autorizzato da Mori nel tentare di contattare Vito Ciancimino. Ribadiamo un concetto: gli ex Ros non hanno mai negato che ci sia stato un contatto preliminare tra loro e Ciancimino. La procura di Palermo è stata avvisata - compreso del contenuto dell'interlocuzione - subito dopo che è andato via Giammanco e si è insediato Caselli come nuovo capo procuratore. Nulla di scandaloso o inedito.

D’altronde, per capire bene di che cosa si sta parlando, bisogna premettere che i pentiti non nascono dal nulla. Lo ha spiegato molto bene l’allora magistrato Guido Lo Forte al Csm nel 1992, quando si riferì alla gestione di Mutolo: “Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi”. Ed è esattamente quello che hanno tentato di fare Mori e De Donno con Ciancimino, con l’aggiunta di volerlo in qualche modo “reclutare” per entrare nel sistema degli appalti. Operazione fallita, perché subito dopo – per ordine dell’allora ministro della giustizia Claudio Martelli (lo testimonia lui stesso) – Ciancimino è stato sbattuto al carcere romano di Rebibbia. Punto. Dopodiché tutto è stato stravolto, tra pentiti come Brusca che ritrattano la loro memoria a seconda di quello che apprende nei notiziari e nei processi, e il figlio di don Vito che collaborava con la procura calunniando e fornendo prove farlocche, mentre nel contempo riciclava il “tesoro” di suo padre. Non solo. Come oramai è collaudato ai tempi del caso Tortora, si aggiungono altri pentiti (e presunti testimoni) di serie b che improvvisamente si accodano nell’accusare Mario Mori di aver fatto cose “indicibili”.

Ora c’è il sigillo definitivo in questo travaglio che dura da vent’anni. Processati i Ros di allora per ben tre volte. Dalla mancata cattura di Provenzano, la cosiddetta mancata perquisizione del covo (che però covo non era) di Riina fino alla (non) trattativa Stato-mafia. Assolti su tutto. E ci mancherebbe visto che sono tesi pieni di congetture, utili magari per le prossime serie su Netflix. Speriamo non più per un’aula giudiziaria.