Ranucci, il conduttore di Report, per rispondere agli avvocati delle camere penali, tra le varie argomentazioni ricorda il papello in cui si chiede l’abolizione del 41 bis. Che Totò Riina non abbia sopportato questo istituto carcerario è scontato. Nessuno può sopportare questo tipo di carcerazione differenziata che, almeno sulla carta, non dovrebbe essere dura. Che le stragi continentali siano state volte anche a piegare lo Stato, affinché ritirasse questo regime, è altrettanto pacifico. Ma affermare con certezza l’esistenza del cosiddetto “papello” di Riina, è errato. La tesi che sarebbe stato consegnato da Vito Ciancimino agli ex ros Mori e De Donno, i quali, in concorso con l’allora ministro Mannino ed altri, si sarebbero adoperati per esercitare una pressione sul governo, mirante all'approvazione di provvedimenti validi a soddisfare le pretese di Riina, tra le quali appunto l’abolizione del 41 bis, approvato dopo l’attentato di Via D’Amelio, non torna. Quindi Riina si sarebbe sabotato da solo?

Andiamo con ordine. La prima inchiesta giudiziaria sulla Trattativa Stato-mafia nasce nel 2000. La procura di Palermo avanza l’ipotesi che nel '92 Riina, con la mediazione di Vito Ciancimino e l'apporto di veicolatore del medico mafioso Antonio Cinà, avesse esercitato un ricatto allo Stato, spedendo un suo "papello" di richieste di benefìci per Cosa nostra, dettate da lui stesso come contropartita della cessazione dell'attacco stragista allo Stato e a una controparte composta da appartenenti alle istituzioni pubbliche e o politiche. L'identità di tale controparte istituzionale non risultava però accertata e uno degli obiettivi che quell'indagine si prefiggeva era proprio di identificarla. Nemmeno risultava accertato se, ed eventualmente quali risultati utili all’organizzazione mafiosa tale ricatto avesse conseguito a livello istituzionale. Quindi nel 2004, viene archiviata l’inchiesta.

Poi arriva la svolta. Spunta nel 2008 Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Con le sue dichiarazioni l’accusa si estende nei confronti di Mori e De Donno, Subranni, Dell'Utri, Mannino, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e così via, fino ad approdare al processo trattativa. In sostanza si attribuisce ai coimputati della parte politico-istituzionale di avere trattato con la parte mafiosa, sulle pretese riassunte nel "papello", in particolare sulle applicazioni del trattamento carcerario del 41 bis, e quindi di avere concorso con la parte mafiosa in quel ricatto allo Stato, che sarebbe stato effettivamente veicolato alla compagine governativa, col conseguimento di alcuni risultati.

Ciancimino, per corroborare ciò, tira fuori dal cilindro il “papello”: la madre di tutte le produzioni, propagandata su tutti gli organi di stampa. Ed è la “prova regina” che dette impulso al processo. Senza di quella, ci sarebbe stata l’ennesima archiviazione. Cosa è risultato dopo anni? Il “papello” consegnato ai Pm da Ciancimino è chiaramente frutto di una sua grossolana manipolazione: lo ha fornito ai Pm solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all'estero non avrebbe impedito la consegna dell'originale. Risulta evidente che le fotocopie, con l'uso di carte e inchiostri datati, impediscano l'accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura. Lo stesso Massimo Ciancimino ha invece fornito l'originale, e non la fotocopia, del post-it manoscritto a matita dal padre che recita '"consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei Ros”, attaccato alla fotocopia del “papello”. Si scoprì che quel post-it riguardava la consegna del libro di don Vito ai Ros. Un libro dal titolo “Le mafie”, ritenuto privo di valore. Ma attaccandolo alla fotocopia di quel “papello”, ha creato una manipolazione. Molto grossolana.

Non solo. Si è accertato che il “papello” non è scritto da Riina, da Ciancimino o alcuno dei soggetti presi in considerazione per le comparazioni grafiche. A questo si aggiungono altri racconti e documenti forniti da Ciancimino senza alcun dato autentico e utile ad identificarlo. In quel periodo, a differenza di Palermo, c’era la procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari che aveva ben inquadrato Massimo Ciancimino: una persona che mentiva. Quindi, in soldoni, parlare ancora del “papello” di Riina, significa continuare a propagandare ciò che è stato smentito con i fatti. Non esiste e nessuno ha dimostrato il contrario. Il giornalismo è separare i fatti dalle opinioni. Ecco il fatto: l’unico “papello” che è stato tirato fuori, è risultata una patacca.