Non servono «più punizioni o leggi più dure», la risposta della politica ad ogni fenomeno che sconvolge la coscienza pubblica. «La giustizia serve, ma arriva sempre dopo. Io sono qui per parlare di ciò che può arrivare prima, la prevenzione e quindi l'educazione».

Due anni dopo il femminicidio di sua figlia Giulia, Gino Cecchettin, suo padre, parla davanti alla Commissione Femminicidio per dare conto del primo anno di attività della Fondazione che porta il nome di sua figlia. «Sono semplicemente un padre che ha visto la propria vita cambiare per sempre», esordisce davanti ai parlamentari, spiegando di aver voluto trasformare il dolore in qualcosa di positivo.

«Da quel giorno il mio mondo si è fermato, ma non potevo restare fermo anch'io», dice. Ha scelto di «dare un senso a quel dolore che rischiava di distruggermi». Per questo è nata la Fondazione Giulia Cecchettin, «non per coltivare la memoria del dolore, ma per trasformarla in impegno». Perché è necessario cambiare la cultura che genera la violenza per non piangere altre vite spezzate, evidenzia.

«Noi della Fondazione crediamo che l'unica risposta duratura alla violenza sia educare al rispetto, all'empatia, alla libertà reciproca. E questo può avvenire solo nella scuola, il luogo dove si formano le persone, non solo gli studenti. Non si tratta di ideologia, ma di civiltà», continua Cecchettin. L’educazione affettiva, dunque, serve. Una risposta che arriva dopo il triste balletto della politica attorno ad una proposta trasformata in questione ideologica, fino alla retromarcia di ieri, con un emendamento della stessa Lega per consentire l’educazione affettiva anche per gli studenti delle scuole medie, previo ok dei genitori.

Cecchettin prova a fare chiarezza. E spiega che «parlare di educazione affettiva significa insegnare i ragazzi a conoscere se stessi, a gestire le emozioni, a riconoscere i confini e chiedere e dare consenso. Significa insegnare che l'amore non è possesso, che la forza non è dominio, che il rispetto è la base di ogni relazione». Non servono leggi emergenziali - come quella sul femminicidio, anche se Cecchettin non lo dice - perché la violenza di genere, spiega, non è un’emergenza, ma «un fenomeno strutturale, radicato nella nostra cultura, nei linguaggi, nei modelli di relazione, negli stereotipi che continuiamo a tramandare. Non nasce all'improvviso - aggiunge -, non è un raptus, cresce lentamente in una società che troppo spesso giustifica, minimizza o resta in silenzio. Per questo credo che l'educazione sia l'unica risposta sistematica possibile».

Perché non si può «delegare ai Tribunali» ciò che è compito della scuola, della famiglia, delle istituzioni culturali. «È lì - spiega -, nelle aule e nei luoghi di formazione che possiamo insegnare ai nostri ragazzi a riconoscere la violenza prima che si trasformi in gesto, prima che diventi tragedia. E qui entra in gioco la responsabilità delle istituzioni. Una scuola che non parla di affettività, di rispetto, di parità, è una scuola che lascia solo i ragazzi di fronte a un mondo che grida messaggi distorti. Quando la scuola tace - aggiunge -, parlano i social, parlano i modelli tossici, parlano i silenzi degli adulti. Noi abbiamo il dovere di dare ai giovani strumenti per orientarsi, non solo nozioni per studiare».

Di fronte alle «paure» e alle «resistenze» Cecchettin risponde in modo chiaro: l’educazione affettiva non è un pericolo, ma «una protezione. Non toglie nulla a nessuno, ma aggiunge qualcosa a tutti, consapevolezza, rispetto e umanità». L’auspicio è che in futuro non servano più Fondazioni, «perché avremo imparato a riconoscere il valore sacro della libertà di ciascuno, il valore sacro della vita». E allora «per Giulia e per tutte le Giulia che verranno, vi chiedo di fare una scelta coraggiosa, di credere nell'educazione come prima forma di giustizia, come la vera forma di prevenzione».

La Fondazione, evidenzia Cecilia D'Elia, vicepresidente della Commissione Femminicidio in quota Pd, sta «riempendo un vuoto di questo Paese su questi temi». Per Alessandra Maiorino, del M5S, la «rieducazione» dovrebbe riguardare non soltanto i maltrattanti, ma «il genere maschile nel suo complesso, a sostegno del genere maschile, in quanto si rivela in effetti al momento quello più fragile, quello che è meno capace di gestire le proprie emozioni, quello che non trova uno spazio dove farlo perché gli stereotipi a cui è sottoposto gli impongono la forza, gli impongono la non trasparenza dei propri sentimenti». Insomma, «si dovrebbe parlare di questione maschile più che di questione femminile perché poi è da lì che si genera tutto - aggiunge -. Le donne sono già state educate alla parità, hanno già fatto molti passi avanti mentre gli uomini sembrano essere stati dimenticati, in un certo senso, dal sistema perché andavano già bene così e non c'era nulla da rivedere».

Rispondendo alle domande, Cecchettin evidenzia la necessità di «sostenere dal punto di vista finanziario i centri antiviolenza, in modo che possa essere utile per ogni donna vittima di violenza». Centri che scarseggiano: stando al rapporto Stato-Regioni, infatti, «ne servirebbero almeno dieci volte tanto, e quindi è chiaro che molte donne non trovano risposta, non trovano risposta perché intasati da tantissime richieste». Ma non solo: per Cecchettin l’educazione affettiva dovrebbe «partire dalla scuola dell'infanzia», con le parole giuste per ogni livello di scolarità, «ma certi concetti fondamentali» si possono insegnare tranquillamente a scuola. «I genitori rappresentano un passo fondamentale per la costruzione della società», aggiunge. Ma «diventare genitori è un mestiere difficilissimo che richiede competenza. Competenza che purtroppo tantissimi genitori non hanno e non hanno neanche la coscienza di dover acquisire questa competenza».