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Anna Politkovskaja
«Stiamo precipitando in un abisso di stampo sovietico, in un vuoto di informazione che, sull'onda della nostra ignoranza, provoca morte. Tutto quello che ci rimane è Internet, dove è ancora disponibile l'informazione. Per il resto, se vuoi continuare a lavorare come giornalista, è solo servilismo nei confronti di Putin. Altrimenti può esserci la morte, un proiettile, un veleno o un processo, quello che i cani guardia di Putin, i suoi servizi speciali, ritengono appropriato». Era il 2004 quando Anna Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta, scriveva queste parole, nel libro, intitolato “ La Russia di Putin”. Due anni dopo, il 7 ottobre del 2006, proprio nel giorno del compleanno di Putin, la giornalista venne uccisa nell'ascensore del suo palazzo, a Mosca, a soli 48 anni. Una morte arrivata dopo anni passati a raccontare con coraggio quanto accadeva in Cecenia, in quella guerra che era servita allo zar a costruire la sua ascesa al potere. Assieme a lei, dal 27 ottobre 1999 a oggi, periodo in cui Putin ha avuto in mano il Paese come primo ministro o presidente, hanno perso la vita altri 30 giornalisti russi. E la sola Novaja Gazeta conta in quell’elenco di morte sei dei suoi cronisti. «Una situazione insostenibile, tossica», ha affermato il direttore Dmitrij Andreevic Muratov, vincitore del Premio Nobel per la pace nel 2021. Anna non concedeva sconti al potere. E il potere, di certo, non poteva perdonarle quell’affronto, forse il più temuto, come dimostra oggi il silenziatore imposto dalla Duma alle voci libere del Paese. Ci provarono anche con lei, più volte, con minacce aperte o velate, fino a quando nel settembre del 2004, mentre si recava a Beslan per seguire il sequestro e il massacro degli ostaggi nella scuola numero 1 del capoluogo dell'Ossezia del Nord, rimase vittima di un misterioso avvelenamento, secondo lei riconducibile ai servizi segreti russi. Quegli avvertimenti, però, non erano stati in grado di fermare le sue parole. «L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede», diceva. E così continuò a fare, con i suoi reportage sulle brutalità della «sporca guerra» in Cecenia e gli abusi compiuti dalle truppe federali. Racconti minuziosi, i suoi, sugli orrori commessi dalle forze russe e da quelle cecene nel corso della guerra dichiarata da Putin e ufficialmente nota come «operazione antiterrorista nel Caucaso del nord», che contava esecuzioni di massa, sequestri e torture. Politkovskaja raccontava tutto in maniera impietosa, denunciando le connivenze del Cremlino, la violenza e la disumanità dell’esercito in Cecenia. Continuò a parlare fino al pomeriggio di 15 anni fa. Quel pomeriggio Anna era andata al supermercato, dove a controllare i suoi movimenti, come svelarono poi le telecamere di sorveglianza installate nel negozio, c’erano un uomo col volto coperto da un berretto da baseball e una giovane donna. Al ritorno, dopo aver parcheggiato la sua auto a pochi passi dall’ingresso del suo palazzo, entrò in ascensore per portare le buste della spesa fino alla porta del suo appartamento, al settimo piano, per poi rifare la strada al contrario. Ma una volta aperte le porte dell’ascensore al piano terra venne investita da una pioggia di proiettili, che la lasciarono senza vita. I primi due la colpirono dritta al cuore, il terzo alla spalla, così violento da scaraventarla dentro l’ascensore. Poi il colpo di grazia alla testa, sparato a distanza ravvicinata, per assicurarsi di non lasciarle scampo. A terra, vicino al suo corpo senza vita, la pistola Makarov 9 mm, firma di quell’assassinio spietato e brutale. Secondo quanto dichiarato dai colleghi, «la prima ipotesi è che Anna è stata uccisa a causa del suo lavoro». La giornalista, infatti, era in procinto di pubblicare un lungo articolo sulle torture perpetrate dalle forze di sicurezza cecene legate al primo ministro, Ramsay Kadyrov. Ma il suo omicidio rimarrà senza un mandante: lo scorso anno, infatti, sono trascorsi 15 anni dal delitto, tempo massimo previsto dal codice penale russo per accertare l’autore del reato, che pertanto è sollevato dalla responsabilità. «Per legge - ha scritto Novaya Gazeta -, solo un tribunale può estendere questo termine. Altrimenti, i mandanti rimarranno impuniti». Non sono bastati tre processi, dunque, per dare un nome e un cognome a chi ha ordinato la sua morte: le indagini, dimostratesi subito lacunose, vennero chiuse in pochi mesi senza individuare la mente di quel delitto. Solo dopo il terzo processo, nel 2014, sono state condannate cinque persone: al ceceno Rustam Makhmudov, considerato l’esecutore materiale del delitto, e a suo zio Lom Ali Gaitukayev, considerato l’organizzatore, è stata inflitta la pena dell’ergastolo. L’ex dirigente della polizia moscovita Sergey Khadzhikurbanov, anche lui ritenuto organizzatore dell’omicidio, è stato condannato a 20 anni, mentre Dzhabrail e Ibragim Makhmudov, fratelli del presunto killer e ritenuti suoi complici, sono stati condannati invece a 14 e 12 anni di carcere. «Non posso dire di essere soddisfatto della sentenza perché non sono stati individuati i mandanti, che è la cosa più importante», aveva dichiarato dopo il verdetto il figlio della giornalista, Ilia. Su ricorso della famiglia, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha depositato il 17 luglio 2018 una sentenza di condanna nei confronti di Mosca per non aver condotto un’inchiesta efficace per determinare chi abbia commissionato l’omicidio. Un omicidio che Politkovskaja aveva previsto, nell’ultima intervista rilasciata al sito israeliano “Newsru”: «Ci sono delle persone che hanno promesso di ammazzarmi. Chi? Il presidente ceceno Ramzan Dadyrov. Non gli piace che io lo ritenga un bandito di Stato, che lo consideri uno degli errori tragici di Putin. È un pazzo ».