«Portò l’autobomba in via Palestro», scrive La Stampa. «Guidò lei le autobombe», titola il Corriere della Sera. «Guidava lei l’auto con l’esplosivo», gli fa eco La Repubblica. Il nome della “bomborola” è Rosa Bellotti, una 57enne della bergamasca. Chi si fosse fermato ieri alla sola lettura dei titoli, non avrebbe potuto far altro che tirare il classico sospiro di sollievo: dopo trent’anni gli inquirenti hanno finalmente scoperto chi trasportò il tritolo che fece saltare in aria la galleria d’arte moderna di Milano in via Palestro, la sera del 27 luglio del 1993. Nell’attentato morirono cinque persone: tre vigili del fuoco, un vigile urbano, un cittadino marocchino senza fissa dimora che stava dormendo nei vicini giardini pubblici. Purtroppo, ed in barba alle recenti disposizioni sulla presunzione d’innocenza, leggendo poi gli articoli si capisce che siamo nell’alveo della migliore suggestione investigativa. Questi i fatti. Lo scorso mercoledì i carabinieri del Ros avevano perquisito l’abitazione della signora Bellotti ad Albano Sant’Alessandro, in provincia di Bergamo. La signora, come si legge nel decreto di perquisizione firmato dai procuratori aggiunti di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco e dall’ancora per poco procuratore Giuseppe Creazzo, riportato quasi per intero dai quotidiani, risulta essere indagata per “associazione di stampo mafioso finalizzata alla strage, con l’aggravante di aver agito per finalità di terrorismo ed eversione”. In pratica, con esponenti di Cosa Nostra Bellotti venne coinvolta nell’esecuzione materiale dell'attentato con funzioni di autista della Fiat Uno imbottita di tritolo lasciata davanti alla galleria. Ma come si è arrivati, dopo trenta anni, alla signora di Bergamo? E adesso viene il bello: da una fotografia. Durante una perquisizione nel 1993 a casa di un carabiniere di Alcamo, accusato di detenzioni di armi da guerra destinate a Gladio, venne rinvenuta in un libro una foto di una ragazza. La foto era stata poi confrontata con un software C-Robot ed era risultata “compatibile” con l’immagine fotosegnalatica della Belloti, arrestata l’anno prima a Bergamo per spaccio di stupefacenti. A legare alla strage il nome della signora lombarda, un identikit fatto da due testimoni oculari all’indomani della strage che segnalarono "una giovane bionda" allontanarsi dalla Fiat Uno poi esplosa. «La mia assista è caduta dalle nuvole», il commento dell’avvocato della signora. «Non si può rovinare la vita di una persona: all’epoca avevo una figlia piccola», quello della Bellotti che dall’altro giorno vive con i giornalisti sotto casa. Forse sarebbe stato il caso di usare qualche condizionale nei titoli, anche perché l’inchiesta condotta dalla procura di Firenze ipotizza come mandanti delle stragi del 1993, Silvio Berlusconi e l’ex senatore Marcello Dell’Utri. In realtà non è la prima inchiesta. Con questa, infatti, siamo al quarto tentativo. Nella prima, archiviata nel 1998 dalla stessa procura fiorentina, Berlusconi e Dell’Utri venivano nominati “Autore uno” e “Autore due”. Dopo quattro anni è stato il turno della procura di Caltanissetta. A indagare sempre Tescaroli e l’allora pm antimafia Nino Di Matteo. In quel caso gli indagati venivano chiamati “Alfa” e “Beta”, ma anche questa volta un nulla di fatto: archiviata. Nel 2008 ci riprova la procura di Firenze, ma tutto finisce nuovamente in un nulla di fatto. Arriviamo nel 2017, siamo ancora a Firenze ed è il pm Tescaroli a riaprila come conseguenza delle intercettazioni dei colloqui in carcere del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, effettuate nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. Teorema giudiziario smontato dalla sentenza della Corte d’appello di Palermo. Visti i precedenti, un po’ di prudenza non guasterebbe.