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Undici anni di vita in sospeso. Undici anni trascorsi tra carceri e tribunali. Poi il colpo di spugna definitivo: Rocco Femia era ed è un uomo innocente. Lo era per quanto riguarda l’accusa di aver fatto parte di una cosca di ‘ndrangheta, lo era nella seconda versione di quell’accusa - il concorso esterno - e lo era anche per quanto riguarda quella manciata di palme piantate lungo il corso della città di cui è stato sindaco, piante che avrebbe piazzato lì solo per aiutare i clan. Nulla di tutto ciò è accaduto, ora è un dato di fatto, un dato che finirà negli archivi giudiziari. L’ultimo capitolo di questa storia allucinante è stato scritto giovedì, quando la Cassazione ha pronunciato l’ennesima sentenza nella vita dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa, di professione professore, che ha subito in tutto otto gradi di giudizio, tra un’accusa e l’altra. Assoluzione che è arrivata anche per l’ex assessore Vincenzo Ieraci, cancellando dunque le precedenti sentenze con le quali erano stati condannati a tre anni di carcere. Anche questa volta il fatto non sussiste. E il fatto è un’accusa di abuso d’ufficio aggravato, stralciata dal processo principale per associazione mafiosa, che gli è costato cinque anni e 10 giorni di custodia cautelare in carcere, salvo poi vedere riconosciuta la sua innocenza. Tutto ruota attorno ad una gara d’appalto per la fornitura di 40 palme: sindaco e assessore, secondo l’accusa, avrebbero agevolato una ditta in odor di ‘ndrangheta dando in subappalto la piantumazione delle palme sul corso principale. Ma non era vero nulla: agli atti del Comune non c’era alcuna delibera di subappalto, né una determina da parte dell’ufficio tecnico. Ma soprattutto, non c’era agli atti la fattura da 1500 euro che la procura sosteneva fosse stata pagata. La difesa - rappresentata dagli avvocati Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino - ha portato in aula, sin dal primo grado, il responsabile del procedimento, che ha spiegato analiticamente l’iter del procedimento. Facendo notare che la ditta, poiché in ritardo con la consegna dei lavori, era stata anche costretta a pagare una multa da 700 euro. Nonostante questo, in primo grado sindaco e assessore, assieme agli imprenditori coinvolti, sono stati condannati a tre anni con l’aggravante del metodo mafioso. Condanna ribadita dalla stessa Corte d’Appello che, dopo un calvario giudiziario dolorosissimo, aveva riconosciuto l’innocenza di Femia nel troncone principale del processo “Circolo formato”. In Cassazione, però, il procuratore generale ha chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste, evidenziando l’assoluta inconsistenza dell’accusa. «Si è chiusa definitivamente questa tragedia architettata a tavolino - spiega Femia al Dubbio -. C’è grande soddisfazione, ma anche grande rabbia. Sono passati 11 anni per avere giustizia, anni in cui ho gridato la mia innocenza, dopo una vita distrutta, una famiglia che ha sofferto come non auguro a nessuno e una comunità che ha dovuto subire tutto questo. Ho dovuto aspettare tanto per vedere nei fatti che ciò che dicevo era vero. Erano gli altri, quelli che rappresentavano la giustizia, ad infangarmi. Ma c’è sempre un giudice a Berlino». Femia, finalmente uscito dal girone infernale della giustizia, chiederà ora il conto allo Stato per i cinque anni trascorsi dietro le sbarre. «Sono pronto a ripartire. Me lo merito», dice sorridendo al telefono ancora emozionato. «La Corte di Cassazione, nell’annullare senza rinvio la decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria - commenta al Dubbio l’avvocato Minniti - ha ritenuto l’assoluta legittimità dell’operato del professore Femia e della sua amministrazione, che ha guidato dal 2008 al 2011 (fino all’arresto, ndr). Con questa sentenza, si conclude definitivamente il calvario giudiziario di quest’uomo, che da giovedì, finalmente, torna ad essere per tutti quello che è sempre stato: un cittadino senza alcuna macchia». Il troncone principale del processo si era chiuso il 10 marzo del 2021, con l’assoluzione nell’appello bis. Sentenza che la procura generale non ha impugnato, confermando, dunque, che quello ai suoi danni è stato un vero e proprio errore giudiziario. Arrestato nel 2011 con l’operazione che svelò gli interessi della cosca Mazzaferro sulle elezioni amministrative del 2008, Femia fu condannato sia in primo grado sia in appello a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa, indicato dai giudici come «partecipe consapevole» di tutte le dinamiche della cosca che ne avrebbe supportato l’elezione. Una certezza prima ritenuta inossidabile e che ha iniziato a vacillare in Cassazione, nel 2018, quando i giudici, escludendo categoricamente che l’ex sindaco potesse ritenersi un affiliato al clan, rispedirono gli atti alla Corte d’Appello, invitando i colleghi a capire se fosse quantomeno un concorrente esterno alla cosca e se, dunque, ci fosse stato un patto tra le due parti. Ma nella sentenza d’appello anche quell’accusa si è sbriciolata: i giudici, infatti, hanno contestato la presenza di «un quadro probatorio del tutto privo di significatività ai fini del giudizio di colpevolezza dell’imputato per una contestazione di estrema gravità, quale quella di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso». Insomma, il processo non avrebbe fatto emergere alcuna prova concreta a carico dell’ex sindaco. Anzi, sarebbero state diverse le evidenze di come l’amministrazione Femia, stroncata dopo tre anni con l’operazione che fece finire in carcere anche tre assessori (poi tutti assolti), si fosse impegnata nel senso opposto a quello evidenziato dall’accusa. I giudici hanno infatti valorizzato «una serie di attività dell’amministrazione guidata dal sindaco Femia Rocco (documentate dalla difesa e non contrastate da alcuna emergenza processuale di segno contrario) finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale». Ora è una verità per tutti.