Zingarettiani contro il segretario. La certezza è diffusa, tra zingarettiani e non: la pax del segretario si regge sul silenzio. E ora traballa sul serio. La polvere può rimanere sotto al tappeto sino a quando qualcosa non sposta quel tappeto: nella fattispecie, il ritorno in Aula a Montecitorio per il rinnovo dell’accordo di collaborazione tra guardia costiera italiana e libica, siglato a suo tempo dall’ex- ministro dell’Interno Dem Marco Minniti.

La rottura di Orfini

A farsi capofila della rottura è stato l'ex presidente del partito, Matteo Orfini. Da tempi non sospetti in dissenso con la linea di Minniti, nei giorni scorsi aveva lanciato una risoluzione trasversale contro il rifinanziamento della guardia costiera libica e stigmatizzato l'assenza dell'ex premier e attuale presidente del partito, Paolo Gentiloni, e dell'ex ministro Marco Minniti alle discussioni sul tema.

«Noi sosteniamo, addestriamo, armiamo la guardia costiera libica per pattugliare e riportare indietro i migranti che provano a scappare. Sostanzialmente chiediamo alla Libia di riportare nei lager chi scappa dai lager. Dobbiamo chiederlo per forza a loro, perché non potremmo farlo noi. Per una ragione banale: è illegale. La Libia non è un porto sicuro e quindi nessuna nave che non sia libica potrebbe riportare lì nessuno», erano state le parole di Orfini, sostenute da una pletora di parlamentari pronti allo strappo anche in aula.

A salvare dall'implosione, lunghi negoziati interni guidati dal capogruppo Graziano Delrio, che ha messo in campo un certosino lavoro di ricomposizione per scongiurare la plateale rottura in aula. Risultato: il ' lodo Delrio' ha prodotto la scelta unanime di non partecipare al voto sulla risoluzione di maggioranza sulla Libia.

«Non partecipiamo al voto perchè non ci sono le condizioni. Tutte le iniziative, da ' Mare sicuro' a ' Sophia', alla stabilizzazione, al controllo nei campi di raccolta, soprattutto all’attività della guardia costiera libica sono state sostanzialmente abbandonate. Non c’è più vigilanza, non c’è più controllo, e quindi l’approccio integrato che si era scelto di fare con gli accordi precedentemente sottoscritti non è più rispettato», ha spiegato Delrio.

Astensione e vittoria anti segretario

Un'astensione che viene letta come una vittoria della linea anti- zingarettiana capeggiata da Orfini contro quella di Lia Quartapelle, capogruppo del Pd in commissione Esteri alla Camera, che aveva firmato una risoluzione in cui chiedeva il rinnovo del sostegno alle motovedette libiche.

«La strada è chiara: gli accordi tra Italia e Libia firmati da Gentiloni nel 2017. Siccome il governo ha nei fatti stracciato quegli accordi ci asterremo perchè non abbiamo avuto abbastanza rassicurazioni», ha spiegato la diretta interessata, glissando sullo scontro interno.

Orfini, invece, ha incassato il risultato: «Una battaglia che avevamo cominciato in pochi e che è divenuta la posizione di tutto il Pd, grazie alla capacità di ascoltarsi che per una volta abbiamo dimostrato» e ha sottolineato come «Questa vicenda dimostra una piccola cosa alla quale tengo molto: mai avere paura di discutere tra noi, anche dei temi più spinosi».

Sulla stessa linea, anche la minoranza capeggiata dal duo Giachetti- Ascani, cui si aggiunge Luciano Nobili: «La soluzione di sintesi che avevamo tracciato è stata quella accolta».

Zingaretti in difficoltà

Se le minoranze- pur balcanizzate senza più l’ombrello del renzismo  esultano, nella maggioranza dem inizia a serpeggiare più acuto il dissenso nei confronti del segretario.

A poco sono servite le parole tardive di Zingaretti sul «Pd unito» che «sostiene le scelte compiute nel 2017 dal Governo Gentiloni» e l’astensione motivata «esclusivamente dall’assenza di garanzie da parte di questo Governo nella gestione di politica estera e militare in uno scenario di conflitto».

Il timore è forte: i silenzi rischiano di palesarsi come una assenza di linea della segreteria, che lascia praterie alle mosse dei vari gruppi di minoranza. Laconici ma decisi, i sostenitori del segretario scuotono la testa: nessuno spende una parola più del dovuto in favore del leader, che questa volta ha commesso un errore non da poco.

All’inizio, i silenzi gli erano stati perdonati come un tratto del carattere su cui lavorare. Ora, però, rischiano di fargli perdere il controllo del partito.