Stavolta è impossibile ipotizzare una distrazione o una leggerezza dovute all'età: l'affondo di Berlusconi contro Zelensky, tanto schierato con Putin da incassare a stretto giro i complimenti appena velati di Mosca, era voluto, freddamente studiato per colpire duro, anzi durissimo, l'alleata e premier. La reazione di FdI e della stessa Meloni non poteva che essere la rapidissima conferma della linea atlantista e un tentativo di minimizzare la posizione del leader azzurro, quasi fossero opinioni personali di un attempato parlamentare qualsiasi. «Cose da non prendere sul serio», come chiosava un ministro tricolore. Incidente talmente minimo da non meritare nemmeno un colpo di telefono della presidente. «Non lo ho sentito», tagliava corto domenica sera prima di mettersi a letto con un'influenza che qualcuno sospetta essere la “berlusconiana”, peggio della “asiatica”. Ma minimizzare è impossibile, almeno al di fuori dei confini nazionali. Nel mondo Giorgia Meloni è ancora un'illustre semisconosciuta. Berlusconi lo conoscono anche i sassi, negli Usa come in Russia, in Francia come in Ucraina.

Altrettanto difficile è non collegare la sortita, non inedita nei contenuti ma nelle forme estreme sì, alla prova elettorale in Lombardia e Lazio. Però pensare a un tentativo in extremis di calamitare il voto dei moltissimi elettori tiepidi nei confronti dello schieramento dell'Italia nell'ala radicale dell'atlantismo significherebbe sottovalutare Berlusconi. Se l'intenzione fosse stata quella il Cavaliere avrebbe lanciato la sua granata alla vigilia del voto, non alla fine della prima giornata con di fronte solo la mattinata. Più che una mossa quasi goffa di campagna elettorale, la mazzata di Berlusconi va intesa come antipasto di quello che sarà lo stato della maggioranza nella relativamente nuova mappa politica disegnata dagli elettori delle due principali regioni italiane. Una mappa che vede sia il partito azzurro che la Lega condannati a combattere per la sopravvivenza o quasi, costretti più o meno volentieri a rendere difficilissima la vita della trionfatrice.

Antonio Tajani, ministro degli Esteri e numero 2 di Fi, ha corretto il suo capo a spron battuto. Poco importa se lui, il sovrano di Arcore, quel Zelensky «da premier non lo avrebbe neanche incontrato», se considera l'eroe della Nato uno sciagurato che ha provocato la guerra continuando ad attaccare le due Repubbliche autonome del Donbass, se considera «molto negativamente il comportamento di questo signore» e vuole che tutti lo sappiano. Il ministro, dopo aver tempestato di telefonate Arcore, garantisce che Fi è «da sempre schierata per l'indipendenza dell'Ucraina» e il voto azzurro non cambierà. Quasi non c'era bisogno che lo ribadisse. Berlusconi sa perfettamente che votare contro il prossimo decreto sull'invio delle armi vorrebbe dire aprire una crisi di governo trovandosi senza sponde salvo quella inutile del M5S e forse della Lega. L'obiettivo del suo sgambetto è probabilmente tutt'altro.

La carta più forte di cui dispone, o disponeva, la premier sui tavoli internazionali era la garanzia di un compatto schieramento a sostegno strenuo dell'Ucraina, la capacità di tenere a bada e sotto controllo alleati, ma anche una base elettorale, molto meno convinta, come lei stessa ha candidamente sottolineato dopo l'umiliazione del mancato invito a cena all'Eliseo con Zelensky e Scholz. Un margine di sospetto, a Parigi, Berlino e Bruxelles se non a Washington è sempre rimasto. Berlusconi si è industriato per allargarlo quanto più possibile, certamente consapevole, dopo lo sgarbo della settimana scorsa della solerzia con cui il fianco ora esposto della premier italiana verrà preso di mira da partner europei che, per una somma di motivi convergenti, hanno tutto l'interesse nell'indebolirla e nel destabilizzare il suo governo.

Del resto per confermare che quella di domenica sera è stata probabilmente non una boutade elettorale ma l'inizio di una guerra di logoramento Berlusconi ha aggiunto la levata di scudi in difesa dei vertici Rai, proprio nel giorno in cui tutta FdI partiva all'attacco contro viale Mazzini. Fi non resterà a lungo sola: la condizione della Lega, dopo questa tornata elettorale, è persino più grave di quella del partito azzurro. Non è affatto escluso che, per azzoppare la galoppante Giorgia, la stessa Lega colga l'occasione offerta da una guerra che tutti e tre i leader della desta sanno essere ben poco popolare tra i loro elettori.