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Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei Ministri
Le dimensioni dell'incidente non possono essere minimizzate. Non era mai successo che uno scostamento di bilancio proposto dal governo non passasse l'esame del Parlamento ma questo, in fondo, è ancora il meno. A rendere il clamoroso voto della Camera l'altro ieri così rilevante è soprattutto il contesto: il momento delicatissimo nei rapporti con l'Europa e l'impatto che inevitabilmente il «brutto scivolone», come lo ha definito una furibonda Giorgia Meloni, rischia di avere nelle trattative con l'Unione europea.
I fronti aperti sono diversi, tutti nevralgici, tutti potenzialmente esiziali per l'Italia. Il primo, in ordine di tempo, è la decisione sulla terza rata del Recovery, pari a 19 miliardi, bloccata da Bruxelles sin dal 28 febbraio. La decisione verrà presa domenica. L'Italia ha accolto quasi tutte le richieste della Commissione, a partire dall'esclusione dello stadio di Firenze e del Bosco dello sport di Venezia, dai progetti inclusi nel Piano. Qualche punto ancora in sospeso però c'è e, anche se improbabile, l'eventualità di una terza proroga di un mese non è del tutto esclusa.
Poi c'è la scadenza del 30 giugno: l'Italia dovrebbe aver raggiunto per quella data 27 obiettivi del Piano e non ce la farà. Sono escluse certamente alcune voci importanti, come gli asili nido, con stanziamento di 4,5 miliardi, e l'ampliamento di Cinecittà. La richiesta italiana è di rivedere gli obiettivi intermedi con la finalità di raggiungere proprio grazie alla revisione quelli finali. Il semaforo verde di Bruxelles, anche in questo caso, è probabile ma tutt'altro che certo.
Il grosso della trattativa arriverà alla fine di agosto, quando l'Italia presenterà la sua proposta complessiva di rimodulazione del Pnrr. Senza quel passaggio, cioè senza l'approvazione sia da parte della Commissione che dei singoli Stati del nuovo Piano, il calvario di questa terza rata si ripeterà più volte. Ma che l'Europa si limiti ad accettare la rimodulazione senza porre condizioni è eventualità remota. Sul Pnrr pesa poi un'altra incognita: per ovviare alle difficoltà delle amministrazioni locali, palesemente non in grado di funzionare come enti appaltanti, il governo pensa di affidare la gestione alle più efficienti aziende partecipate. Le quali però non sono in grado di svolgere allo stesso tempo i loro abituali compiti e operare come enti appaltanti del Piano. È appena il caso di notare che i saldi del Def approvato alla fine ieri sono rigorosamente condizionati alla piena e puntuale realizzazione dei progetti del Pnrr e sembra proprio un periodo ipotetico dell'irrealtà.
La partita più importante è quella del nuovo Patto di stabilità: questione di mesi ma con l'obbligo di concludere entro la fine dell'anno. La bozza proposta dalla Commissione è per l'Italia molto problematica: i piani quadriennali di rientro dal debito, prorogabili sino a 7 anni, prevedono sì un percorso più graduale ma anche una diretta intromissione della Commissione nelle scelte economiche che sconfina nel commissariamento. Le sanzioni, inoltre, diventerebbero automatiche in caso di sforamento dei parametri e questo, per un Paese come l'Italia abituato a mercanteggiare di volta in volta sulla flessibilità sarà un guaio. L'obbligo di rientro dello 0,5 per cento sul debito ove non fosse rispettato il 3 per cento nel rapporto deficit/ Pil è una spada di Damocle che potrebbe abbattersi su Roma già nel 2024.
Il quadro migliorerebbe se fosse accolta la richiesta italiana di escludere dal deficit le spese per il rinnovamento digitale e per la transizione ecologica ed è una porta non blindata. In compenso lo stesso quadro peggiorerebbe forse anche di molto se venissero accolte le istanze della Germania, scettica nei confronti della bozza per motivi opposti a quelli dell'Italia. Berlino giudica quella proposta di Patto di stabilità troppo morbida in particolare proprio con l'Italia e specificamente sul fronte del debito.
Va da sé che su quel mercato la credibilità è moneta preziosissima. Per questo uno scivolone che revoca in dubbio proprio quella affidabilità, già molto traballante, è ben più che un imbarazzante incendio. A maggior ragione se accompagnato da uno sgarbo quasi inspiegabile come la scelta di paralizzare la riforma del Mes, negando la necessaria ratifica, unico Paese tra i 20 dell'area euro.