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LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
Dopo le dichiarazioni inequivocabili e anche un po’ ruvide di Giorgia Meloni sul palco di Bari, culminate nello stentoreo «mettetevi l’anima in pace» rivolto a chi sogna di usare il referendum sulla giustizia per disarcionarla da Palazzo Chigi, è arrivata la conferma definitiva: la premier non farà l’errore di Matteo Renzi nel 2016.
Nessun plebiscito personale, nessuna sfida in stile «o me o il caos». La campagna per il referendum di primavera sarà condotta da Palazzo Chigi con il massimo rigore istituzionale, attenendosi al merito del contenuto della legge Nordio. E cioè la separazione delle carriere dei magistrati, bandiera storica dei garantisti e ormai diventata, per forza di cose, il banco di prova dell’intero centrodestra.
Meloni lo ha spiegato chiaramente: «A casa possono mandarmi solo gli italiani». Poi ha inchiodato la sinistra al suo slogan di comodo: «Dicono di votare no per mandare a casa la Meloni. Ma mettetevi l’anima in pace: il governo arriverà alla fine della legislatura e poi chiederà di essere giudicato sul lavoro complessivo». La linea è tracciata. Nessun dramma, nessun azzardo politico. Il referendum non sarà un test sul governo ma sull’opportunità di riscrivere l’architettura giudiziaria.
Una scelta prudente, ma non priva di implicazioni. Perché, sebbene i sondaggi al momento non prefigurino una sconfitta, è inevitabile chiedersi su chi ricadrebbero le conseguenze di un eventuale “no” vincente. Non solo politicamente, ma anche simbolicamente. Meloni vuole battere il record di durata a Palazzo Chigi, e proprio per questo l’ipotesi di un rimpasto appare remota. Tuttavia, è lecito ipotizzare che in caso di sconfitta, le prime scosse arriverebbero su via Arenula, dove Carlo Nordio — autore e garante della riforma — si troverebbe in prima linea nel fronteggiare la bufera.
Il ministro della Giustizia, tuttavia, ha già chiarito la propria posizione: «Resterei sicuramente deluso, ma non metterei in difficoltà il governo con le mie dimissioni». Un messaggio che vale come assicurazione preventiva. Anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto, lo ha ribadito: «Non penso proprio» che un risultato negativo possa tradursi in crisi di governo. L’intento è blindare la stabilità dell’esecutivo, tenendo distinto il giudizio politico da quello referendario.
Si è già detto che sarà dunque Nordio il vero frontman della campagna per il Sì. Non un politico, ma un magistrato che parla di diritto con autorevolezza tecnica e misura istituzionale. Che è lui il volto scelto per incarnare una battaglia che la premier vuole condurre “senza simboli di partito”, come ha confidato ai suoi collaboratori, e soprattutto senza lasciar spazio a rivendicazioni nostalgiche. Forza Italia, in particolare, è stata invitata a evitare toni da rivincita contro le toghe nel nome di Berlusconi. Il messaggio è chiaro: la riforma deve parlare a tutto il Paese, non solo agli orfani del Cavaliere.
Da qui la missione affidata a Nordio e ad Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, altro ex magistrato di peso: guidare una campagna referendaria fondata sul principio del giusto processo, non sul rancore politico. Un equilibrio delicato, che Meloni sta costruendo con pazienza, consapevole che l’elettorato moderato, specie quello cattolico e garantista, non gradirebbe derive giustizialiste ma nemmeno la riedizione del duello tra politica e magistratura.
Meloni, Tajani, Salvini: ciascuno recita la propria parte. Forza Italia avrebbe voluto un coinvolgimento più diretto, con i suoi amministratori locali impegnati in prima linea per il Sì. Ma la premier ha spiegato al vicepremier azzurro che sarebbe incoerente con la strategia complessiva: «Noi abbiamo approvato la riforma perché la riteniamo utile — avrebbe detto —. Se i cittadini sono d’accordo, votino Sì; altrimenti vorrà dire che l’articolo non li interessa, e non ne faremo un dramma».
In questa cornice, Nordio diventa la sintesi perfetta delle due anime del centrodestra: quella garantista berlusconiana e quella istituzionale di Fratelli d’Italia. È il volto neutro e autorevole di una campagna che non vuole apparire come resa dei conti con la magistratura, ma come un passaggio necessario per dare coerenza alla Costituzione repubblicana.
Certo, l’esito del voto avrà un peso politico. Se dovesse vincere il Sì, Meloni ne uscirebbe rafforzata come leader capace di chiudere un cerchio storico. Se invece prevalesse il No, l’effetto sarebbe diverso ma non devastante: il governo resterebbe in piedi, e il Guardasigilli potrebbe persino trarne forza, come tecnico non logorato dalle logiche di partito. In ogni caso, il messaggio lanciato da Bari è inequivocabile: la premier non si farà trascinare nel tritacarne del referendum.
La riforma Nordio è un tassello importantissimo dell'impianto programmatico del centrodestra, ma non una roulette politica. E proprio per questo, nelle stanze di Palazzo Chigi, si continua a perorare la causa di una campagna sobria, istituzionale, tutta sul merito. È la lezione del 2016: non trasformare una consultazione in un giudizio di Dio. Meloni l’ha imparata bene. E ora, più che una sfida, il referendum è un banco di prova di maturità per il governo e per l’intera destra di governo.


