Non solo la fronda oltranzista rimasta nel Movimento 5 Stelle. Giuseppe Conte dovrà guardarsi le spalle anche dalla fronda “pragmatica”, parcheggiata nel partito per vedere “come butta”, ma pronta a migrare verso altri Gruppi qualora l’avvocato del popolo non desse le garanzie opportune. E le assicurazioni richiese da questo vasto ed eterogeneo esercito di peones si esauriscono essenzialmente a due: discontinuità nella selezione della nuova classe dirigente pentastellata e, soprattutto, un seggio caldo per un altro giro in Parlamento.

La rimozione del vincolo dei due mandati, ovviamente, non basta. Con la riduzione degli scranni, conseguenza del referendum grillino, e con la contrazione del consenso, inevitabile dopo anni al governo con chiunque, deputati e senatori assegnano un prezzo alla loro fedeltà: una posizione sicura nella quota proporzionale che garantisca un ritorno in Parlamento. «Anche prendendo per buoni i sondaggi, che ci danno in risalita di sei punti, chi mi dice che Conte non scelga una squadra di professori amici da inserire in lista?», si chiede una deputata in attesa di capire che strada prendere. Perché, assicurano gli scontenti, i parlamentari in sonno pronti ad abbandonare sono parecchi. «Almeno un’altra trenitna di deputati», giurano.

Una schiera di eletti anonimi pronti a lasciare la nave alla ricerca di una scialuppa di salvataggio. Eventuali gruppi di destinazione: Fratelli d’Italia e Lega, i due partiti maggiormente quotati e per questo con più spazi da mettere a disposizione dei fuoriusciti. Altri potrebbero seguire gli scissionisti, nella speranza che il dissenso si trasformi in una reale alternativa al grillismo, altri ancora sarebbero disposti ad accasarsi nel Misto pur di trascorrere gli ultimi due anni di legislatura senza stress ulteriori e liberi dagli obblighi di partito (decurtatzioni “salariali” in testa). Molto dipenderà dai segnali che arriveranno da Conte nelle prossime settimane, a partire dalla “segreteria politica” che l’avvocato selezionerà tra gli iscritti. Perché che il comitato dei cinque si trasformi in un vero e proprio gruppo dirigente da affiancare al leader, ormai viene considerato scontato. «Se Conte si circonderà ancora una volta dei vari Bonafede, Fraccaro, Taverna vorrà dire che nulla sarà cambiato, che il partito resterà in mano a chi lo ha fatto fallire», dice ancora un parlamentare. «E io non rimarrcoò un minuto in più in un’organizzazione di questo tipo. Se invece prevarranno meritocrazia e turnover del gruppo dirigente significa che c’è ancora un briciolo di speranza».

E su questo punto i destini dei peones e degli idealisti si intrecciano. C’è infatti chi, come l’onorevole Giorgio Trizzino, eretico di natura, non teme di scrivere su Facebook: «Mi chiedo e mi rivolgo agli elettori dei quali non voglio tradire la fiducia: è ancora possibile ed utile restare nel Movimento a queste condizioni?», scrive il deputato amico di Sergio Mattarella. «O è necessario combattere dall’interno per un radicale cambiamento che premi lealtà, competenza, dibattito ed espella da sé capi e capetti sensibili solo alla conservazione delle poltrone?». Sì perché nel mirino di tutti c’è anche e soprattutto Luigi Di Maio, di fatto capo politico per mancanza di alternative, considerato il maggior responsabile della perdita di identità del Movimento. «Non è un vero leader, sa solo posizionarsi nel posto giusto al momento giusto», dice un eletto che pure si è sempre allineato alla via indicata dal ministro degli Esteri.

Ma in caso di una nuova diaspora, per il M5S si aprirebbe un problema non solo politico, legato al peso all’interno del governo Draghi, ma anche economico. In ballo non ci sono solo le ovvie risorse in meno collegate a un minor numero di parlamentari, ma anche i soldi già versati a un fondo destinato a finanziare progetti selezionati dal partito. Sono i famosi 2mila euro che ogni eletto è tenuto a versare mensilmente al partito. «Ci sono ancora sei milioni di euro non attribuiti e bloccati su quel fondo. Ma si tratta di libere donazioni, e non di modico valore, effettuate dai parlamentari», spiega la fonte grillina. «Per non essere contestati servirebbe un atto pubblico, certificato da un notaio, che al momento non esiste. Questo significa che per legge ho 10 anni di tempo per ripensarci e chiederli indietro. E sinceramente se dovessi andare via non li lascerei lì, magari per finanziare in futuro la campagna elettorale di qualche amico di Conte».