Alla fine, la contestazione attesa si limita a un piccolo gruppo di delegati che intona Bella ciao e abbandona la sala mentre Giorgia Meloni sale sul palco. Qua e là, tra i banchi lasciati vuoti, spuntano dei peluche, come quelli appartenuti ai bambini annegati davanti al mare di Cutro. Poi, la premier può prendere la parola e intervenire al XIX congresso della Cgil. «Non so cosa aspettarmi ma mi sembra giusto esserci», è l’esordio.

Non succedeva da 27 anni che un presidente del Consiglio prendesse la parola davanti a questa assise. Prima di lei, Romano Prodi nel 1996. E la leader di Fratelli d’Italia ci tiene a rimarcarlo: a onorare il sindacato di sinistra, dopo tutto questo tempo, è la premier più a destra della storia repubblicana. Un modo come un altro per festeggiare il 17 marzo, giornata «dell’unità nazionale». Meloni non teme i fischi e affronta la platea col petto in fuori. «Mi sento fischiata da quando ho 16 anni», dice. «Potrei dire che sono Cavaliere al merito su questo»,aggiunge, rassicurata anche dal fatto che prima di arrivare al microfono era salito sul pulpito il padrone di casa, Maurizio Landini, per raccomandarsi coi suoi: siamo qui per ascoltare pareri diversi dal nostro.

E Meloni non se lo fa ripetere due volte. Non è arrivata a Rimini per “lisciare il pelo” al sindacato, ma per rivendicare, con cortese contrapposizione, le sue ricette di governo: no al salario minimo, cancellazione del reddito di cittadinanza, riforma fiscale. La platea - che il giorno prima aveva tributato un’ovazione a Elly Schlein - adesso ascolta con diffidenza, evita di manifestare il proprio dissenso e allo stesso tempo si guarda bene dall’applaudire. In tanti filmano coi telefonini questo “corpo estraneo” catapultato tra i lavoratori, qualcuno prende appunti. «Grazie anche a chi mi contesta», prosegue la premier, dileggiando anche uno degli slogan utilizzati dall’ala dura e pura della Cgil: «Meloni pensati sgradita», era scritto su alcune magliette in stile Chiara Ferragni a San Remo. «Efficace, anche se non sapevo che Ferragni fosse una metalmeccanica», sogghigna la premier, canticchiando forse a mente Comunisti col rolex, celebre motivetto di Fedez, noto consorte dell’influencer.

Ma è solo il primo dardo, scagliato col sorriso in bocca, di una leader di destra che ci mette la faccia, non rifugge il conflitto e sfida il sindacato sul terreno di un’idea diversa di lavoro, sviluppo e giustizia sociale. Ne arriveranno altri, di dardi, nel corso dell’intervento che non risparmieranno nemmeno il “protettivo” Landini: «Sono contenta di leggere nella relazione che la Cgil non è un sindacato di opposizione, perché verrebbe da dire: figuriamoci se lo fosse», continua Meloni. «Nel senso che in oltre due ore di relazione non ho trovato nulla di quello che il governo ha fatto finora su cui la Cgil sia d'accordo». Poi la numero uno di Palazzo Chigi entra nel merito dei provvedimenti e prova a stuzzicare la platea. Sulla riforma fiscale, tanto per cominciare: sarà una leva «per favorire la crescita occupazionale» e «aumentare le retribuzioni», perché ridurre le aliquote Irpef non significa «cancellare la progressività».

Alcuni in sala si scambiano sorrisini contrariati. Ma è sulle politiche del lavoro che Giorgia Meloni dà il meglio di sé, ingaggiando il duello col “sindacato rosso”. Garantire per legge salari adeguati? Una sciocchezza, per la premier, perché vorrebbe dire che a creare ricchezza dovrebbe essere lo Stato. La ricchezza, invece, « la creano le aziende con i loro lavoratori, quello che compete allo Stato è immaginare regole giuste e redistribuire la ricchezza». Non solo, il salario minimo rischia di essere inefficace perché si trasformerebbe in una tutela «sostituitiva», «non aggiuntiva», che si rivelerebbe «un favore alle grandi concentrazioni economiche», spiega Meloni, utilizzando l’arma lavorista a sostegno di tesi liberiste. L’unica soluzione: estendere e potenziare i «contratti collettivi», aggiunge la premier, facendo propria la tesi che fino a non troppo tempo fa spingeva proprio la Cgil a contrastare l’idea di un salario minimo legale.

Discorso simile per il reddito di cittadinanza, misura che per la leader di Fd’I ha fallito tutti i suoi obiettivi soprattutto perché ha messo nello stesso calderone chi poteva lavorare e chi no. I poveri? «Non vogliamo mantenerli in una condizione di povertà come ha fatto il reddito di cittadinanza. L’unico modo per uscire da quella condizione è il lavoro», scandisce Meloni, giocando ancora coi sentimenti della Cgil, senza però fornire alternative concrete a un sussidio che non libera solo dalla povertà, ma anche dal lavoro sfruttato e sottopagato.

Per un timido applauso bisogna aspettare il passaggio in cui la premier ricorda l’assalto «ignobile» dell’estrema destra alla sede nazionale della Cgil. È praticamente l’unico, insieme a quello di congedo, e di cortesia, a fine intervento. Ma la presenza della premier a Rimini segna comunque una svolta nelle relazioni col sindacato: un riconoscimento reciproco non affatto scontato prima. Meloni lascia soddisfatta il Palacongressi, ignorando gli striscioni lasciati a terra davanti all’ingresso principale: «Cutro strage di Stato».