I 5S mordono il freno, scalpitano. Leu, probabilmente è altrettanto poco convinta. La riforma della prescrizione è una mediazione, ma di quelle ad alto rischio perché per sperare davvero che i processi d'appello arrivino in due anni, pena l'estinzione del processo stesso, ci vuole una buona dose d'ottimismo e da quelle parti, invece, regna sovrana la diffidenza. E soprattutto perché nel pacchetto delle fattispecie di reati imprescrivibili non fa parte la corruzione, cioè la ragion stessa d'essere dei 5S. Mafia e terrorismo e nulla di più. La mediazione c'è. La riforma Bonafede non è stata formalmente cancellata. Ma è una mediazione decisa dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e dal premier Draghi da soli, non concordata con i soggetti politici con i quali si sta "mediando". L'innovazione nel metodo è di portata immensa, va oltre le stesse non piccole dimensioni della riforma in questione. Trattandosi del tema forse più delicato nella folta agenda del governo, la rottura è ancor più vistosa. Senza neppure convocare la cabina di regia, Draghi e Cartabia hanno deciso di portare subito la riforma sul tavolo del Cdm. È possibile che la crisi devastante nella quale continua a dibattersi il Movimento abbia contribuito a spingere il premier verso la linea drastica. Di certo tira in quella direzione la determinazione di Bruxelles. Nel corso della conferenza stampa allestita a Cinecittà nella sua visita a Roma, la presidente Ursula von der Leyen ha risposto sempre allo stesso modo alle numerose domande su quali riforme ritenesse più essenziali per l'Italia: «La giustizia». Alludeva essenzialmente a quella civile, in realtà, ma il pacchetto non è divisibile. Il rapporto annuale sulla giustizia presentato proprio ieri a Bruxelles, e chissà se si tratta davvero solo di una coincidenza, è massacrante e il verdetto sullo stato della Giustizia in Italia da bocciatura secca. La forzatura sula giustizia non è un caso particolare. Con i partiti di maggioranza impegnati nell'eterna guerra e nell'altrettanto eterno mercanteggiamento per il rinnovo delle cariche Rai il premier ha tagliato corto facendo sapere che il 12 luglio deciderà il governo. La settimana scorsa, sul nodo intricatissimo dello sblocco dei licenziamenti, il premier ha concesso poco ai sindacati ma assolutamente niente ai partiti. Senza la mobilitazione dei sindacati, nonostante le insistenze della ex maggioranza di Conte e una telefonata dello stesso ex premier, Draghi avrebbe proceduto senza neppure apportare le specifiche, peraltro lievi e prive di ogni garanzia, ottenute da Cgil, Cisl e Uil. Si potrebbe obiettare che il sistema politico italiano non ha certo aspettato l'arrivo di Mario Draghi per allontanarsi di molte migliaia di km dal corretto funzionamento di una democrazia parlamentare, per spostare sempre più prerogative delle Camere nelle mani del governo, per esautorare un Parlamento peraltro complice con l'uso abituale della micidiale doppietta decretazione d'urgenza/voto di fiducia. Si potrebbe addirittura sostenere che Draghi, con le sue puntigliose repliche in aula nelle quali cerca di rispondere a tutti gli interventi uno per uno, mostra più considerazione almeno formale per il Parlamento di quanto fossero abituati a fare i suoi predecessori. Ma lo slittamento resta tutto perché qui non si tratta più solo del Parlamento ma dell'intera politica. Sono gli stessi partiti della maggioranza, e i loro leader, a essere consultati, sì, ma senza più quel diritto all'ultima parola che invece avevano avuto in tutti i governi a eccezione di quello Monti. In quel caso, però, si trattava in tutta evidenza di una parentesi. Monti era stato chiamato ad applicare direttive europee molto precise in un lasso di tempo limitato e circoscritto. In un certo senso il suo stesso governo aveva poca voce in capitolo. Stavolta le cose stanno diversamente. Draghi deve sì tenere conto delle indicazioni europee ma non è un esecutore. È al contrario elemento essenziale di quella stessa cabina di comando europea le cui direttive il suo governo è poi chiamato a seguire. La mission del suo governo è allo stesso tempo molto più ampia e richiede tempi di attuazione molto più lunghi di quella affidata da Bruxelles a Monti. Lo sfaldamento del sistema politico, già avanzato all'epoca di Monti, ha inoltre fatto da allora passi da gigante. Il che rende da un lato molto più facile procedere lungo la via decisionista imboccata ma dall'altro, specialmente nelle circostanze eccezionali prodotte dalla crisi dovuta al Covid, rende quello steso decisionismo quasi indispensabile. È probabile infatti che Draghi non possa muoversi in modo diverso da quello adottato ma per una democrazia parlamentare già terremotata come qulla italiana il colpo rischia di essere fatale. Dopo Draghi molto difficilmente l'architettura del sistema potrà tornare a essere quella già fatiscente di prima.