Ora si vedranno le ricadute sul piano mondiale e su quello della politica interna del G20 di Roma ma, più in particolare, di Mario Draghi. Cui le fortunate coincidenze politiche certamente, ma anche la competenza e il personale prestigio internazionale hanno permesso di intestare un po’ l’evento, chiudendolo peraltro con una conferenza stampa che non ha lasciato alcuna domanda senza una documentata risposta, con padronanza assoluta degli argomenti trattatati nel summit.

Sul piano mondiale vedremo se e come gli accordi “non vincolanti” di Roma, come lo stesso Draghi ha tenuto a precisare, pur in una visione ottimistica maturata nel “multilateralismo” ereditato dalla cancelliera tedesca e leader europea uscente Angela Merkel, si innesteranno nella conferenza climatica delle Nazioni Unite a Glasgow. Si sono passati la staffetta il presidente del Consiglio italiano e il premier inglese Boris Johnson.

Sul piano della politica interna vedremo se e come dall’evento appena concluso deriveranno effetti su Draghi nella doppia veste che ormai ha assunto, volente o nolente, di presidente del Consiglio e candidato al Quirinale per la successione a Sergio Mattarella.

È una successione della quale Draghi ha più volte detto che non è elegante, né opportuno, parlare sino alla conclusione materiale del mandato del capo dello Stato in carica, cui peraltro lui deve un riguardo particolare per essere stato davvero scelto da lui personalmente alla guida di un governo volutamente e dichiaratamente anomalo, fuori dagli schemi tradizionali e dopo la consumazione di due maggioranze di segno opposto realizzate dallo stesso uomo su designazione della stessa forza politica. Mi riferisco naturalmente a Giuseppe Conte, ripagato della fedeltà al MoVimento 5 Stelle diventandone presidente, una volta uscito da Palazzo Chigi, dopo una designazione, una clamorosa e furente bocciatura e un sorprendente recupero, in ordine rigorosamente cronologico, da parte del “garante” Beppe Grillo.

Come non aveva fatto nulla per succedere a Conte, nonostante le manovre attribuitegli direttamente o indirettamente dai sostenitori e tuttora nostalgici dell’ex presidente del Consiglio, così Draghi non ha fatto nulla, nemmeno qualche smorfia in una delle conferenze stampa o incontri occasionali con i giornalisti in cui gli è capitato di essere interpellato sull’argomento, per accreditarsi in gara sulla strada del Quirinale. Ve lo hanno messo, o cercato di metterlo, giornali, partiti e singole personalità politiche: giornali come Il Foglio, di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, dichiaratamente convinti che sette anni di Draghi al Quirinale siano migliori per l’Italia che un altro anno o poco più a Palazzo Chigi «e poi chissà che cosa; partiti come il MoVimento 5 Stelle appena espostosi con un’apertura a sorpresa di Conte, condizionata a garanzie contro lo scioglimento anticipato delle Camere, la destra di Giorgia Meloni a condizione opposta; personalità come il ministro forzista Renato Brunetta, almeno fino a quando nella “Villa Grande” dello stesso Berlusconi sull’Appia Antica la già ricordata Meloni, Matteo Salvini e il padrone di casa non si sono vincolati a muoversi unitariamente per la successione a Mattarella. Che non significa muoversi a favore di Draghi per due semplicissime ragioni, che stanno l’una dentro l’altra come in una matrioska.

La prima ragione, personalmente esposta da Berlusconi, è che Draghi - diversamente da quanto pensano Giuliano Ferrara ed altri amici dello stesso ex presidente del Consiglio, che lo chiamano ancora in redazione «l’amor nostro» è «più utile al Paese che al Quirinale», tanto più perché persino il segretario del Pd Enrico Letta si è spinto a immaginarlo a Palazzo Chigi «almeno fino al 2023», non escludendone quindi la conferma nella prossima legislatura. La seconda ragione, anch’essa esposta personalmente dall’interessato, sta nella frase di Berlusconi, in un collegamento telefonico con un convegno di ex democristiani a Saint Vincent, che «non si tirerà indietro» alludendo appunto alla corsa al Quirinale. Che anche per lui, per carità, come per Draghi e per Enrico Letta, almeno quello della «moratoria» proposta a questo scopo il mese scorso, non sarebbe educato aprire anzitempo, ma cui evidentemente non ci si potrebbe sottrarre, o tirarsi indietro, appunto, se aperta da altri.

Non c’è dubbio che nell’immaginario ormai collettivo, diciamo così, dopo il successo personale al G20 le quotazioni di Draghi per il Quirinale siano aumentate. Chissà quanti degli illustri ospiti del Quirinale - non i perditempo o i “banal grandi” liquidati nei titoli del suo giornale da Marco Travaglio - avranno pensato alla cena di sabato che i due capitavola, il presidente della Repubblica con Biden da una parte e il presidente del Consiglio Draghi con la Merkel dall’altra, fossero destinati a passarsi la mano.

È proprio in vista di questa successione che il direttore del Giornale della famiglia Berlusconi, Augusto Minzolini, ha scritto nell’editoriale di domenica che andrebbe detto senza ipocrisia, con la franchezza dovuta a una sana informazione e democrazia, che votando Draghi al Quirinale i parlamentari farebbero la fine dei tacchini a Natale, con tanto di elezioni anticipate. Meglio Berlusconi, quindi, sembrava sottinteso. Ma Conte si è mostrato più fiducioso, chiedendo praticamente a Draghi garanzie forse non impossibili per la prosecuzione della legislatura. La politica evolve a volte più di quanto non si creda, o non si tema, secondo i casi.