Possiamo certo scommettere, con probabilità di vittoria pagata pochissimo dai bookmakers, che questa diciottesima legislatura non durerà i cinque anni certificati dai contraenti gialloverdi ad ogni passo. Ma annusando l’aria, sembra altrettanto probabile che l’evento non si verificherà nei prossimi tre mesi: il voto d’autunno, paventato da molti e desiderato invece da un po’ di ceto dirigente leghista, dunque non ci sarà.

Al suo posto una lenta, strascicata, sincopata rapsodia dell’amore perduto tra i due sottoscrittori del mitologico “contratto di governo” che potrebbe portare all’ineluttabile show down nella prossima primavera. E addurre parecchi lutti agli Achei - in questo caso italiani- come più o meno Monti (il poeta, non il premier, che peraltro si chiamava Mario) nella nota traduzione dell’Iliade.

Se Salvini avesse voluto davvero il voto subito avrebbe dovuto chiederlo dopo il successo elettorale alle europee o, nell’ultima occasione possibile, in queste ore d’assedio senza requie. L’incertezza, gli stop and go, probabilmente anche la preoccupazione di subire il riflusso del caviale e degli champagne russi che scorrono a fiumi nell’hotel Metropol (noto a zero zero sette e alla letteratura noir) hanno fatto svanire l’attimo fuggente. In attesa dell’altra onda il leader della Lega avrà modo di meditare. Di rilevante - e paradossale - c’è che, nella stagione più machista della repubblica italiana, dove un solo digrignamento di denti equivale in termini politici almeno a dieci sedute del Parlamento ( ma non nel prodotto finale: zero in entrambi i casi), s’avanza inaspettatamente una virtù rimossa: la moderazione.

Dare un’occhiata a Conte e Giorgetti per credere. Conte, dopo essersi dato da fare come un capo doroteo lombardo- veneto degli anni settanta per ricucire i tanti sfilacciamenti del governo al cospetto dell’Europa, spuntando un risultato niente affatto scontato, per cui anche le più alte cariche della Repubblica si erano silenziosamente spese, di tener salva l’Italia dalla procedura d’infrazione, oggi si propone come punto di equilibrio della coalizione. Gli fa da pendant Giorgetti, che già si era guadagnato in partenza i galloni di Richelieu non foss’altro che per la sua sana ritrosia esternatoria, un doroteo degli anni duemilaventi, rara avis nel panorama politico nazionale, e che oggi riesce ad imbastire interlocuzioni a trecentosessanta gradi, precluse a colleghi di fede e di governo.

Due dorotei al vertice dei giochi. Sembrano tenui presagi di nemesi: dopo tanto chiasso e tanta roboante belligeranza, sembra l’ora di quelli che operano in silenzio. È presto per dire se questo rappresenti davvero un cambio di passo: se lo fosse significherebbe anche l’avvio di una parabola discendente dei protagonisti che fanno della politica un continuo digrignamento di denti, roba da rovinare il palato per consunzione dell’arcata dentaria.

Staremo a vedere. Per il momento il gran cinema “politica nazionale” sta per chiudere i battenti: anche per i proiezionisti è il momento di andare a mare.