Forse nei toni la sottosegretaria all'Economia Cecilia Guerra, persona pacifica e quindi poco avvezza agli ultimatum, ha finito per essere più ruvida di quanto avrebbe voluto. Ma sul significato del messaggio che due giorni fa ha consegnato alla commissione Finanze della Camera non ci sono dubbi, come non ce ne sono sul fatto che a darle il mandato di mettere la commissione con le spalle al muro siano stati il ministro Franco e il premier Draghi. Nessun margine di trattativa sulla riforma del catasto, articolo 6 della delega fiscale e oggetto di contesa che da settimane teneva la delega al palo: o passa l'articolo o passa il governo, nel senso che ritiene concluso il suo mandato. Con mezza maggioranza che in quel momento era pronta a votare l'emendamento soppressivo della Lega e il rischio di andare sotto in caso di qualche assenza nel fronte favorevole alla riforma, essendo i due schieramenti in parità assoluta, un tentativo di mediazione convocando il vertice dei leader sarebbe stato in altri tempi quasi automatico. Draghi, per l'ennesima volta, ha preferito evitarlo. Al di là dell'esito della vicenda e del braccio di ferro seguito all'ultimatum della segretaria, la posizione del governo offre un'indicazione precisa: nonostante le critiche e l'intervento felpato ma chiaro dello stesso Mattarella nel suo discorso di reinsediamento, nonostante la crescente insofferenza dei partiti tenuti in panchina da mesi, il premier non intende modificare sostanzialmente il suo stile di governo. Concessioni formali sì ma nulla, o non molto di più. Un esempio eloquente si era già avuto con la risoluzione che ha concluso il dibattito sulla guerra in Ucraina. La tabella di marcia prevedeva il varo del decreto la sera prima del dibattito, dunque senza aspettare il parere dell'istituzione che dovrebbe essere il cuore e il perno di una democrazia parlamentare. Se l'argomento fosse stato di minor peso la forzatura sarebbe probabilmente passata sotto silenzio o tutt'al più accompagnata dagli ormai puntuali mugugni. Qui però si trattava di una decisione di immensa importanza come quella di fornire armi agli Ucraini e di varare sanzioni tanto pesanti da confinare con la dichiarazione di guerra. I partiti hanno dunque protestato davvero. La soluzione è stata una classica quadratura del cerchio all'italiana. Il decreto è stato varato in anticipo ma con l'aggiunta di una frase previa risoluzione delle Camere che salvava la forma ma non la sostanza. Proprio data l'estrema rilevanza delle decisioni assunte, smentirle avrebbe significato per il Parlamento mettere il governo alla porta. È possibile che, subito dopo la traumatica settimana delle elezioni presidenziali, con l'emergenza Covid in via di superamento e le esigenze elettorali di partiti che già si sentono a un passo dalle urne, Draghi abbia seriamente considerato la possibilità di modificare almeno in parte il rapporto con il Parlamento. Mattarella gli consigliava di scegliere un profilo più politico, intrecciando rapporti più stretti con il Parlamento e con i partiti, chiarendo su quali punti l'azione dell'esecutivo non poteva essere soggetta a modifiche e su quali invece erano possibili margini di mediazione e trattativa. La guerra sembra aver fatto piazza pulita di quelle tentazioni, o forse di quelle buone intenzioni. Draghi era arrivato a palazzo Chigi come commissario, non come normale presidente del Consiglio. L'emergenza Covid e quella legata all'obbligo di varare rapidamente le riforme necessarie per ottenere i fondi europei per il Pnrr giustificavano una scelta anomala da molti punti di vista. A emergenza quasi conclusa e a elezioni politiche imminenti sembrava che quel ruolo commissariale dovesse essere superato. Un'emergenza ancora più grave del Covid invece lo impone di nuovo, forse addirittura rafforzato. Ma la politica ha le proprie esigenze, spesso più forti di qualsiasi contingenza. Nonostante l'aut aut del governo, l'intero centrodestra, di maggioranza e d'opposizione, ha deciso di tenere duro sull'emendamento soppressivo, sullo stralcio della riforma del catasto. Nel frattempo, dopo la minaccia della sottosegretaria Guerra, due voti favorevoli allo stralcio si erano però spostati a sostegno dell'articolo e del governo e alla fine la riforma voluta dal governo è passata per un voto. Ma la spaccatura plateale della maggioranza nonostante il diktat di Draghi e nella situazione più difficile dell'ultimo mezzo secolo e oltre è un segnale molto poco rassicurante per il futuro.