Si è trasformata nell’ennesimo caso politico-diplomatico delle ultime settimane la contestazione avvenuta lo scorso 22 dicembre all’Università Federico II di Napoli, durante il convegno dal titolo «Russofilia, russofobia, verità», promosso da una sezione dell’Anpi e a cui hanno partecipato, tra gli altri, Alessandro Di Battista e il professor Angelo d’Orsi.
A incendiare lo scontro non è stato solo il confronto acceso in aula tra relatori e attivisti pro Ucraina, ma soprattutto il successivo intervento dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia, che ha denunciato l’episodio come prova dell’«ucrainizzazione della politica italiana e della vita pubblica». Un post dai toni durissimi, diffuso sui canali social ufficiali della sede diplomatica russa, nel quale si parla di «vessazioni», di «nazionalismo primordiale» e persino di «nazisti ucraini», con un lessico che è andato ben oltre la consueta propaganda.
Parole che hanno immediatamente fatto scattare la reazione di diversi esponenti politici italiani, preoccupati non tanto dal merito della polemica, quanto dal metodo e dal livello dello scontro. Carlo Calenda, leader di Azione, ha replicato senza mezzi termini, definendo «buffoni dell’Ambasciata russa» i rappresentanti di «un regime fascista, imperialista e assassino», rivendicando il diritto di contestare iniziative considerate filorusse sul territorio italiano. Benedetto Della Vedova, di Più Europa, ha annunciato un’interrogazione al ministro degli Esteri Antonio Tajani, chiedendo al governo di intervenire per difendere le istituzioni italiane da quelli che ha definito «attacchi che somigliano più ad azioni di guerra ibrida che a propaganda mal confezionata».
Ma il punto politico va oltre Napoli e le sue tensioni. L’elemento più rilevante è il crescente interventismo dell’Ambasciata russa nel dibattito pubblico italiano, con prese di posizione sempre più frequenti e sempre meno circoscritte alle questioni strettamente diplomatiche o geopolitiche. L’episodio della Federico II appare così come l’ultimo tassello di una strategia comunicativa che da tempo punta a incidere direttamente sulla politica interna del Paese. Negli ultimi mesi, la sede diplomatica russa è intervenuta su temi che nulla hanno a che vedere con il conflitto in Ucraina, come la vendita del gruppo editoriale Gedi da parte di John Elkann, manifestando una beffarda soddisfazione per le preoccupazioni per il futuro sollevate dai giornalisti.
Un’ingerenza che ha suscitato perplessità trasversali, proprio perché estranea al perimetro tradizionale delle relazioni tra Stati. A questo si aggiungono le prese di posizione della portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova, che nei giorni scorsi ha elogiato pubblicamente il vicepremier Matteo Salvini per le sue dichiarazioni sulla capacità storica della Russia di resistere alle invasioni napoleoniche e naziste. Un endorsement politico esplicito, arrivato da una figura istituzionale russa, che ha ulteriormente alimentato il dibattito sul ruolo di Mosca nella discussione pubblica italiana.
Non sono mancati, infine, ripetuti e violenti attacchi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, bersaglio di una propaganda che ha più volte superato i confini del rispetto istituzionale, senza che questo producesse conseguenze diplomatiche significative. Episodi che, messi insieme, delineano un quadro coerente. In questo contesto, la denuncia dell’«ucrainizzazione» dell’Italia appare rovesciata. Nel panorama dell’Europa occidentale, il problema italiano non è l’importazione di modelli democratici ucraini, ma semmai una penetrazione più profonda che altrove di narrazioni, argomenti e cornici interpretative riconducibili alla propaganda del Cremlino.
Una vera e propria “putinizzazione” del dibattito pubblico, che trova spazio non solo nei margini radicali, ma anche all’interno della discussione politica e mediatica. Il caso Napoli, al netto delle responsabilità individuali e delle ricostruzioni contrapposte su quanto avvenuto in aula, segnala dunque un salto di qualità. Non è più soltanto una disputa tra attivisti o una polemica accademica, ma il riflesso di una pressione esterna che interviene, commenta, giudica e tenta di delegittimare dinamiche interne alla democrazia italiana. Una pressione che chiama in causa direttamente il governo e la sua capacità di presidiare lo spazio pubblico da interferenze sempre meno dissimulate.
A rendere il quadro ancora più delicato è il fatto che questo attivismo comunicativo non si limita alla difesa della linea del Cremlino, ma ambisce apertamente a delegittimare soggetti, partiti, associazioni e persino istituzioni della Repubblica. Un salto che segna il passaggio dalla propaganda alla pressione politica, in un contesto in cui il confine tra libertà di espressione e interferenza esterna diventa sempre più labile. È una dinamica che altri Paesi europei osservano con attenzione e che in Italia, per intensità e frequenza, appare ormai strutturale.