Lunedì 22 Dicembre 2025

×

C’eravamo tanto amati. La Manovra porta via Giorgetti dal Carroccio

Dopo il braccio di ferro con Salvini sulle pensioni, il ministro è ormai considerato un “uomo della premier”

22 Dicembre 2025, 18:59

19:02

Giancarlo Giorgetti

L’ultimo scontro su una manovra che più povera non si può, (18,7 miliardi di euro), quello che per la prima volta dall'insediamento di Giorgia Meloni a palazzo Chigi ha dato libero corso alle parole impronunciabili, “crisi di governo”, è stato in larghissima misura una faccenda interna alla Lega.

Le battute a Chigi parlano di una premier tornata di corsa dai fasti di Bruxelles alle miserie di Roma per gestire gli equilibri, anzi i riequilibri, interni al Carroccio. È certamente così ma in controluce si intravedono nodi non sciolti che vanno ben oltre la tensione sempre più visibile tra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti. Quella tensione c'è da un pezzo, è cresciuta a dismisura di legge di bilancio in legge di bilancio, pare che abbia incrinato anche un rapporto personale solido. Non potrebbe essere diversamente. 

Tra il ministro leghista che ha preso la missione di risanare i conti pubblici molto più seriamente di quasi tutti i suoi predecessori, inclusi quelli che professavano l'obbedienza al rigorismo europeo come un atto di fede, e un leader sempre leghista che, almeno nella retorica, è piazzato agli antipodi lo scontro era inevitabile. Le spese per il faraonico Ponte dosate col contagocce hanno completato l'opera. Quando Giorgetti ha dovuto prendere di mira o meglio ancor più di mira i pensionati, bastonando così una parte robusta della base elettorale ma anche facendo fare una figura pessima al suo capo che aveva promesso l'opposto, il corpo a corpo è diventato inevitabile. Tra Giorgetti e Borghi, che copriva però Durigon che a sua volta aveva alle spalle il leader.

Si sa come è andata. La manovra che verrà approvata in tempi ridicolmente brevi al Senato per poi essere controfirmata senza neanche leggerla dai deputati registra il passo indietro del ministro sulle finestre, anche se le penalizzazioni per chi si fosse illuso di andare in pensione con qualche anno di anticipo senza pagare prezzi da strozzo restano. Nel complesso la sconfitta di Giorgetti è certamente politica ma la manovra resta connotata come voleva lui e come voleva la premier. Vincono la difesa dei conti pubblici e dello spread basso al primo posto e vincono le imprese, l'unica parte sociale ad aver ottenuto più o meno tutto quello che chiedeva.

È probabile però che le cose, di qui alle elezioni del 2027, siano destinate a cambiare. Lo scricchiolio degli ultimi giorni rivela che sta arrivando al pettine il vero nodo che minaccia di asfissiare la destra al governo e che, per fortuna di Giorgia, l'opposizione ha sin qui sfruttato poco e molto male. Meloni e Giorgetti, all'esatto opposto di quanto promesso dalla destra in campagna elettorale e di quanto atteso da una preoccupatissima Europa, hanno puntato tutto sull'affidabilità nella gestione dei conti pubblici. Ancor più dello schieramento radicalmente pro-Ucraina di una leader sospetta di vicinanza a Putin è stata la scelta ancora più imprevista del rigore che ha fornito a Meloni le credenziali sulle quali ha basato un indiscutibile successo europeo.

Le politiche austere di Giorgetti si coniugano con la visione complessiva di una leader che in realtà non ha nulla a che spartire con la destra sociale. Fatta salva un po' di retorica da comizio, peraltro tenuta più a freno che su quasi tutti gli altri fronti, Giorgia Meloni ha una impostazione molto più vicina a Margaret Thatcher che ai suoi ex compagni di partito attestati sull’ala “sinistra” di Alleanza nazionale o dello stesso Msi.

Il terzo elemento è che il governo si è dimostrato capace nella difesa dei conti pubblici ma non altrettanto nelle politiche di sviluppo, penalizzate peraltro anche se non soprattutto dalla crisi tedesca. Di qui l’esigenza di recuperare all'ultimo momento tre miliardi e mezzo per le aziende, che sul totale della manovra non sono affatto cifra trascurabile e che hanno innescato la prima turbolenza seria nella parabola di questo governo.

Le cose sono destinate a cambiare. Perché le elezioni si avvicinano e con la legge elettorale che Giorgia ha in mente, quella che dovrebbe abolire i collegi per tornare a un proporzionale con premio di maggioranza, anche i partiti in coalizione dovranno conquistarsi i consensi competendo con gli alleati. È una prova che Salvini non può affrontare con alle spalle solo cinque anni di cedimenti al rigorismo del suo numero due Giorgetti e alla politica filoucraina della premier e del suo partito. È lecito immaginare che il primo vero scontro ingaggiato da Salvini non sarà l'ultimo e che, di conseguenza, anche il decreto armi per l'Ucraina che il cdm dovrebbe varare il 29 dicembre sarà ancora al centro di un braccio di ferro. Non più il primo e neppure l'ultimo.