Giorgia Meloni in Aula
L’esito del vertice Ue che ha deciso di sostenere l’Ucraina attraverso un prestito europeo, rinviando l’uso diretto degli asset russi congelati, rappresenta non solo la soluzione probabilmente più solida dal punto di vista giuridico, ma anche quella politicamente più gradita a Giorgia Meloni.
Una scelta che consente alla premier di portare a casa un risultato a Bruxelles e, allo stesso tempo, di disinnescare una mina interna pronta a esplodere: la Lega di Matteo Salvini. Di fronte all’ipotesi di utilizzare i beni russi – bollata da Vladimir Putin come una “rapina” e da Viktor Orban come una “stupidaggine” – il Carroccio si sarebbe con ogni probabilità sfilato, rendendo ingestibile l’ennesimo passaggio parlamentare sul dossier ucraino.
Non è un mistero, del resto, che Salvini abbia già fatto sapere che il via libera leghista al prossimo decreto sugli aiuti militari a Kiev non potrà essere scontato. Stavolta, ha chiarito, serviranno distinguo evidenti, capaci di segnare una discontinuità rispetto ai precedenti provvedimenti.
In questo quadro, aver tolto dal tavolo la grana degli asset russi è per Palazzo Chigi una boccata d’ossigeno clamorosa: gli sherpa di maggioranza stanno già lavorando a una formula narrativa che consenta alla premier di portare a casa il decreto senza strappi irreparabili.
Se a Bruxelles avesse prevalso la linea più muscolare sponsorizzata dall’asse Tusk-Merz, la partita si sarebbe trasformata in un rebus potenzialmente irrisolvibile, dalle conseguenze politiche difficilmente prevedibili.
Il Consiglio europeo ha invece approvato all’unanimità un prestito da 90 miliardi di euro a favore di Kiev, basato sul bilancio comunitario. Gli asset russi resteranno congelati e potranno essere utilizzati solo nel caso in cui Mosca, a guerra conclusa, non paghi le riparazioni. Una soluzione che Meloni ha definito sostenibile e di buon senso, sottolineando la necessità di garantire all’Ucraina risorse per i prossimi due anni con una base solida sul piano giuridico e finanziario. «Sono contenta che abbia prevalso il buon senso», ha detto al termine di un vertice che l’ha vista arrivare stanca ma soddisfatta.
Mentre la premier era impegnata a Bruxelles, a Roma però la tensione saliva. In Senato, nel cuore della notte, la Lega ha aperto un fronte durissimo sulla manovra, opponendosi alla stretta sulle pensioni ipotizzata per finanziare le misure a favore delle imprese. Ne è seguito un braccio di ferro culminato nello stralcio della misura, dopo contatti serrati tra il capogruppo leghista Romeo e il ministro dell’Economia Giorgetti e una call ai vertici del governo.
Un copione già visto, che a Palazzo Chigi tendono a derubricare a dinamica fisiologica di fine anno, ma che contribuisce a definire il clima. Anche perché Salvini appare in questa fase particolarmente esuberante, galvanizzato dall’assoluzione definitiva nel caso Open Arms. Il crescendo di dichiarazioni è evidente: dalla malcelata ambizione di tornare al Viminale agli avvertimenti al “suo” ministro Giorgetti sulla manovra, fino agli attacchi frontali ai giudici sul caso della famiglia nel bosco di Palmoli.
Sul fronte ucraino, poi, il leader leghista continua a martellare contro chi, a suo dire, avrebbe interesse ad “andare lunghi” sulla guerra, invocando uno spirito olimpico che aiuti a chiudere una partita che si gioca sulla pelle di migliaia di giovani. In questo contesto si inseriscono anche le parole di Claudio Borghi, che parla apertamente di un compromesso in costruzione sul decreto Ucraina, con una maggiore enfasi sugli aiuti civili e su strumenti esclusivamente difensivi.
Segnali che confermano quanto la scelta europea sugli asset russi abbia alleggerito, almeno per ora, la pressione su Meloni. Le schermaglie sulla manovra rientrano nel rituale di ogni dicembre; quelle sull’Ucraina, invece, avrebbero potuto riservare sorprese ben meno gradite. Per la premier, il vertice Ue non è stato solo un successo diplomatico, ma anche un prezioso salvagente politico.