Uno scatto dalla notte del Consiglio europeo
«Soltanto l’Europa può preservare, e dare un futuro, a quelle conquiste che gli Stati hanno garantito per decenni con i loro ordinamenti". Quasi a coronare una settimana di dichiarazioni univoche sulla collocazione europeista dell'Italia e sulla linea di sostegno all'Ucraina, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso alla cerimonia di scambio degli auguri con le Alte cariche che si è svolta ieri al Quirinale, ha tenuto a ribadire il concetto, soffermandosi stavolta in particolare sull'importanza della difesa, e in special modo della difesa comune europea. «La spesa per dotarsi di efficaci strumenti che garantiscano la difesa collettiva», ha sottolineato, è sempre stata comprensibilmente poco popolare. E tuttavia», ha concluso, «poche volte come ora, è necessaria».
Sono parole che arrivano poche ore dopo il difficile accordo di Bruxelles. Una soluzione adottata nella notte tra giovedì e venerdì dal Consiglio europeo per il prestito di 90 miliardi, senza il quale per l’Ucraina la guerra sarebbe finita in poche settimane con la bancarotta, sia frutto delle circostanze, dei veti, delle pressioni Usa. La cosa che appare verosimile è che è che si siano mossi con grave imperizia e clamoroso dilettantismo gli sconfitti, cioè il cancelliere tedesco Merz, la presidente della Commissione europea von der Leyen e quello del Consiglio europeo Costa. Sino alla serata di giovedì la sola ipotesi in campo sembrava essere il sequestro degli asset russi, dato il muro eretto non solo dalla Germania e dai Frugali ma anche dalla stessa Commissione contro ogni possibilità di ricorrere al debito comune, opzione che si è invece poi a sorpresa imposta.
Il prestito era di gran lunga la principale posta in gioco sul tavolo del Consiglio, che però per tutta la giornata era stato ben attento a non sfiorare l’argomento facendoli slittare in fondo all’odg. La discussione vera era a latere, nella raffica di incontri con il premier belga De Wever. Senza il semaforo verde del Paese davvero esposto, quello nel quale sono depositati i miliardi russi, procedere diventava se non proprio impossibile certo molto difficile. Il primo errore di Merz e von der Leyen è stato arrivare all’appuntamento cruciale senza aver strappato in qualche modo quell'assenso. Se il Belgio fosse stato isolato le cose probabilmente sarebbero andate in altro modo ed era quello che auspicavano Berlino e palazzo Berlaymont. Ma il Belgio aveva dalla sua parte apertamente il terzo Paese dell’Unione, l’Italia, e, con maggiore discrezione, il secondo, la Francia. Macron, a differenza di Meloni, ha evitato di esporsi troppo apertamente, il che ha reso però il suo schieramento ancora più devastante.
De Wever ha chiesto garanzie, ed era ovvio che lo facesse non potendo permettere che il suo Paese si esponesse da solo a un probabile Tsunami finanziario e a un già certo crollo della sua credibilità “reputazionale”. Ma le sue condizioni erano tanto proibitive da far sospettare che fossero fatte apposta per essere rifiutate. Prima ha chiesto che anche la Germania si impegnasse ad adoperare i suoi asset russi, del resto poca roba. Merz, sia pure a malincuore, ha accettato. Poi però De Wever è tornato alla carica sul vero pezzo forte: la Ue era pronta a condividere la garanzie per la restituzione dei 185 miliardi che intendeva confiscare dalla società belga Euroclear (nel frattempo minacciata di declassamento da Fitch).
Il premier belga voleva garanzie illimitate nella cifra e nel tempo: cioè l’impegno a coprire eventuali multe salatissime comminate in seguito alle cause legali intentate da Mosca. Pur di arrivare a mèta la Commissione era pronta ad accettare una condizione capestro per i singoli Stati, i quali invece pronti non erano affatto. Avrebbe significato mettere a rischio i bilanci di tutti e per alcuni Paesi, come l’Italia, l’esito sarebbe stato disastroso e non per modo di dire. Pare che in quel momento il volto di Giorgia Meloni fosse scuro come una notte senza luna e stelle ed è senza dubbio verosimile. Senza quella condizione, il Belgio è tornato a puntare i piedi e l'asse Macron-von der Leyen ha scoperto di essere finito in un vicolo cieco.
Uscire dal Consiglio senza una soluzione sarebbe stato tombale per l’Unione. Imporre la confisca contro Belgio, Italia e Francia, per non parlare di un attore certo non secondario nella vicenda come Trump, non era possibile. A quel punto l'ungherese Orbàn è entrato in scena e ha calato la sua carta a sorpresa. Il no dell'Ungheria, della Slovacchia e della Repbblica ceca agli eurobond era dato per sicurissimo e lo stesso leader ungherese lo aveva confermato a volontà. Non era vincolante, data la decisione di adoperare ancora una volta l'art. 122 per votare a maggioranza qualificata. Però una decisione sul debito comune senza unanimità era già una forzatura quasi estrema, se accompagnata dal voto contrario di tre paesi sarebbe diventata una bomba a orologeria. Orbàn si è improvvisamente detto pronto, anche a nome degli altri due Paesi considerati “putiniani” ad accettare l'opt-out, cioè ad astenersi senza dover partecipare al debito comune. A quel punto, per la coppia tedesca non c’era scampo.
Ma sconfitti non sono solo loro e il gruppo di Paesi, dai Baltici alla Polonia, che premeva nella stessa direzione. Nella sostanza Zelensky porta a casa il suo risultato: 90 miliardi che lo salvano dalla resa e dalla bancarotta. Ma il disegno politico era molto più ambizioso e non a caso il leader ucraino aveva sostenuto a spada tratta il sequestro degli asset. Con una mossa così estrema l’Europa si sarebbe bruciata ogni ponte alle spalle e lo scontro sarebbe diventato molto più di quanto già non sia tra Russia ed Europa. Non è affatto escluso che quel passo finale e decisivo possa essere fatto domani. Ma la trappola di Meloni, che esce benissimo da una delle partite più difficili della sua vita, di Macron e di Orban e certamente anche di Trump ha rimesso tutto in forse.