Avvocato Nicola Buccico, già presidente del Cnf, come mai ha scelto di far parte del “Comitato Pannella-Sciascia-Tortora”?
L’adesione è il frutto di una scelta naturale: l’idea di accorpare le battaglie di libertà di Marco Pannella, l’illuminismo e il primato della ragione che hanno accompagnato Leonardo Sciascia, un gigante con i “suoi” Montaigne e Pascal, la tragica vicenda giudiziaria consumatasi sulla vita di Enzo Tortora è stata geniale. La professionalità degli aderenti, a principiare dall’amico Spangher, principe dei processualistici, è garanzia di serietà e non può che accrescere le ragioni culturali e storiche che da Mario Pagano hanno portato alla modifica costituzionale dell’articolo 111. Quindi un ottimo viatico per una giusta battaglia.
Cosa ne pensa del dibattito che si sta facendo sul referendum?
Il dibattito deve rimanere nel perimetro costituzionale e nell’alveo dei diritti irrinunciabili. Le degenerazioni patologiche - che tendono a stravolgere il vero ed effettivo significato del dibattito - appartengono alle forzate interpretazioni politiche collegate a previsioni congetturali, non previste dalla legge ora sottoposta a referendum. Le estremizzazioni e le capziosità politiche non aiutano: sono artatamente nebbiogene. Occorre mantenere e, quando si disallinea, riportare il dibattito nel campo costituzionale con l’atteso avveramento di un reale processo di matrice accusatoria. Il referendum è, insomma, una occasione per non disperdere i frutti del lungo cammino percorso: e gli avvocati, espulsi dall’inquisitorio e tollerati dai ritocchi successivi, non possono - comprendendo il significato della riforma - che essere tutti in prima linea. Ricordo con commozione, dopo la riforma dell’89, le parole che nel Cnf (eravamo all’alba degli anni ’90) ci regalava, con la sua saggezza condita di ironia, il padre della riforma, Giandomenico Pisapia.
Lei è stato anche membro laico del Csm. Dalla sua esperienza da cosa si evince empiricamente il condizionamento del giudice da parte dei pm?
Considero positiva l'esperienza da me voluta di entrare nel Csm: conoscere dal di dentro il mondo dei magistrati costituiva, infatti, una occasione da non perdere. Ho nella mia consiliatura anche avuto rapporti eccellenti con laici di grande spessore (solo emblematicamente ricordo Spangher e Luigi Berlinguer) e magistrati valorosi (un futuro Primo Presidente della Cassazione, un futuro Procuratore generale della Cassazione e ancora attuali capi di importantissimi Uffici giudiziari). Certo gli spifferi correntizi, drammaticamente, smisuratamente e patologicamente slatentizzati dalla vicenda Palamara, esistevano e si coglievano soprattutto nel settore delle nomine e spesso si risolvevano in prove muscolari e/o in interessati abbracci ecumenici tra le varie correnti.
Lei a Radio Radicale ha detto che tutto parte dai Consigli giudiziari. Ci può spiegare in che senso?
Sono i luoghi di prossimità della originaria e genetica promiscuità: qui giudici e pm, pur essendoci la protocollare presenza del rappresentante degli Ordini Forensi, si incontrano e si valutano, si giudicano e spessissimo si promuovono, vicendevolmente. È rarissimo che il Csm sulla base di queste valutazioni che provengono dalle Corti di Appello, dove sono insediati ed operano i Consigli giudiziari, si discostino. La letteratura dei Consigli giudiziari è, spesso se non abitualmente, monotona e ripetitiva in chiave laudativa ed autoassolutoria.
Lei è favorevole o contrario al sorteggio? E non crede ci sia una disparità nel prevedere il sorteggio temperato per i laici e quello puro per i togati?
Parliamoci chiaro. Il sorteggio è di per sé una sconfitta. E se vogliamo dirla tutta, una sconfitta della ragione. Ma la degenerazione correntizia (che mediaticamente con Palamara ha assunto una espansione tumorale) ha imposto un rimedio radicale “per abolire e contenere il ginepraio di correnti” e stoppare una insana e incomprensibile politica giudiziaria ormai emblemitizzata come metodo Palamara (anche se storicamente non è giusto addossare colpe cosmiche e totemiche ad una sola persona!). A tale approdo è pervenuto anche Augusto Barbera, già Presidente della Corte costituzionale, coltissimo uomo di sinistra. Prima di ogni altra considerazione sul sorteggio puro e quello temperato attendiamo, scaramanticamente, le leggi attuative. E soprattutto non demonizziamo l’Alta Corte, ancora in parte domestica: l’ideale, e non solo per i magistrati, ma anche per gli avvocati, come vado predicando inutilmente, è un giudice disciplinare effettivamente e totalmente terzo.
Lei davvero crede che nell’attuale sistema processuale i giudici non siano terzi ed imparziali?
Il giudice non può che essere terzo rispetto alle parti, accusa e difesa: la imparzialità è il suo abito naturale. Non siamo qui a fare le pulci a nessuno: già i processi televisivi ci alluvionano facendo crescere disaffezione e pregiudizio.
Cosa pensa quando sente il governo dire che questa riforma serve a “ricondurre” la magistratura e che oggi è utile alla destra, domani lo sarà alla sinistra?
La magistratura non deve essere utile né alla destra né alla sinistra: e tutti debbono ricordarsi (vecchio e nuovo 104 della Carta costituzionale) che la magistratura “costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Questa, e non altra, è la stella polare!
Qual è l’argomento dei No che più la irrita?
L’aspetto più irritante (e del tutto friabile e inconsistente) è la prospettazione apocalittica del futuro, con i pm asserviti all’Esecutivo. In definitiva così si combatte la riforma con un non argomento, al di fuori della previsione della norma costituzionale. L’altro non argomento, di taglio paraintellettuale, è quello del declino della cultura della giurisdizione, come se fosse possibile delimitarne il perimetro a giudice e pm. La cultura della giurisdizione, cioè l’insieme e il fondamento di valori nei quali si riconosce al principio di legalità il giusto criterio della risoluzione dei conflitti, appartiene certamente anche agli avvocati quali soggetti attivi della giurisdizione e non può che permeare l’intero corpo sociale. Occorre quindi difendere la riforma nel nome della democrazia e della civiltà giuridica.