Il 18 novembre la Cassazione ha ammesso il referendum sulla separazione delle carriere promosso dai parlamentari. Ma pochi giorni fa 15 cittadini hanno fatto a loro volta richiesta di poter raccogliere le 500mila firme previste dall’articolo 138 della Costituzione. Cosa succede ora? Ne parliamo con Giovanna De Minico, ordinaria di Diritto costituzionale alla Federico II di Napoli.
L’articolo 138 comma 2 della Costituzione recita che le leggi sono sottoposte a referendum quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Allo stesso tempo l’articolo 15 della legge 352/70 dispone che il referendum sia indetto entro sessanta giorni dalla comunicazione dell'ordinanza di ammissione. C’è un conflitto all’interno della norma?
In apparenza c’è, ma come per ogni antinomia, anche per questa esiste il modo di comporre il contrasto.
Come?
La Costituzione, come fonte di vertice dell’ordinamento, impone che la norma ordinaria riceva un’interpretazione costituzionalmente conforme all’articolo 138, ove possibile.
In che modo?
Ritenendo che quel termine di 3 mesi, posto dal 138 Cost., decorra interamente, prima che il governo decida la data referendaria. Quindi, occorre aspettare che i 15 volenterosi raccolgano le 500mila firme entro il 30 gennaio. Solo quando la Cassazione avrà emesso la seconda e ultima ordinanza di legittimità della richiesta, il governo, entro 60 giorni, dovrà scegliere la data del voto. In sintesi, non è nella disponibilità giuridica o politica del governo abbreviare i termini: contrariamente, il diritto degli elettori venuti per secondi sarebbe sacrificato a favore dei primi richiedenti, ma il 138 non stabilisce la regola first come, first served.
Però fonti di Palazzo Chigi e via Arenula sostengono che il governo è legittimato a procedere senza attendere.
A mio giudizio non lo è, perché il termine perentorio dei tre mesi è stato posto dal Costituente nell’interesse non del governo ma di minoranze ad hoc, quelle legittimate a proporre referendum.
Quale interesse verrebbe pregiudicato, di preciso, se il governo fissasse la data del voto?
Proprio l’interesse dei 500mila elettori, privati del tempo necessario per la raccolta delle firme e per la campagna referendaria. Raccogliere le firme richiede più tempo di quello necessario per far firmare un quinto dei parlamentari. Inoltre, c’è anche una ragione istituzionale contingente: il Parlamento ha già pagato un conto salato, in quanto la legge Nordio, impostagli dal governo, era protetta dall’indicazione inderogabile di uscire dalle Aule parlamentari così come era entrata. Vogliamo ripetere lo stesso errore, privando i cittadini di un loro diritto costituzionale?
In passato è già successo di trovarsi in una situazione simile?
Sì, almeno due volte, ricordo. Nel 2001 il secondo governo Amato indisse il referendum costituzionale sul Titolo V a partire dalle richieste referendarie dei senatori di maggioranza e di opposizione, nonché sulla successiva domanda di 11 cittadini (della Lega, ndr) di raccogliere le 500mila firme: ebbene, in quel caso l’Esecutivo attese i tre mesi, prima di stabilire la data della consultazione. Anche nel 2020 il governo Conte bis rispettò i tempi costituzionali per il referendum sul taglio dei parlamentari.
Qualora il governo decidesse comunque di ignorare la richiesta di raccogliere le 500mila firme, cosa potrebbe accadere?
Anzitutto metterebbe il Capo dello Stato nella difficile posizione di firmare un decreto di indizione lesivo di quella che, a mio parere, è la corretta interpretazione della normativa costituzionale e ordinaria, attestata anche dai precedenti. Se il Presidente non opponesse un diniego, i volenterosi potrebbero impugnare il decreto. Forse non dinanzi alla Corte costituzionale, perché solo a firme raccolte i 15 sono un Comitato promotore ammesso al conflitto di attribuzione come titolare di una funzione costituzionalmente rilevante. Ma il decreto sarebbe impugnabile davanti al giudice amministrativo, secondo la mia opinione. L’auspicio è che il governo eviti di accelerare e di impedire la riflessione pacata sull’opportunità di rivedere la Costituzione che l’articolo 138 richiede.