Luigi Salvato, ex procuratore generale della Cassazione: fino a pochi mesi fa lei definiva la separazione delle carriere inutile e persino dannosa. Oggi è nel Comitato per il Sì. Qual è stato l’argomento decisivo che l’ha convinta a cambiare idea?
Ritengo anzitutto di sottolineare che non ho mai dubitato dell’ammissibilità della riforma. Nell’audizione del 23 luglio 2024 dinanzi alla I Commissione della Camera ho motivato le ragioni per le quali, a mio avviso, la riforma non intacca i principi della “Costituzione materiale” e non viola norme o principi dell’Ue o del Consiglio d’Europa, essendo peraltro il modello della separazione prevalente in Europa. In un’intervista al Dubbio del febbraio 2025 ho ribadito "la titolarità del potere di scelta in capo all’istituzione massima espressione della rappresentanza politica: il Parlamento". In un’intervista al Corriere della sera ho espresso dubbi sulla riforma, ma non con l’intento di chiudere all’idea della stessa, bensì con quello di sviluppare un percorso di analisi e approfondimento.
Dunque, in seguito, ho continuato a studiare e approfondire, come è doveroso fare, per verificare la fondatezza dei dubbi. Non mi sembra che vi sia nulla di strano. Nel corso dei processi si maturano convincimenti che poi si modificano ascoltando le parti, si portano nella camera di consiglio, ci si confronta e, a volte, la camera di consiglio viene rinviata. Analogamente può accadere per argomenti quale quello oggetto della riforma. Una volta approvata la legge di riforma costituzionale, in vista del referendum, ho dovuto operare una scelta. Ho messo gli argomenti a favore e contro sui piatti della bilancia e mi sono convinto per il Sì. È un convincimento, ovviamente, criticabile, come, altrettanto ovviamente, è criticabile la tesi contraria, ma sempre nel rispetto reciproco e attraverso un dibattito franco e leale, proprio di ogni democrazia.
Non dovrebbe essere considerata un’anomalia che in un Paese con sistema accusatorio le carriere di giudici e pm siano ancora uniche?
La questione dell’appartenenza a un unico ordine di giudici e pm non è sorta oggi. È stata posta già nel vigore del vecchio codice di procedura penale, in anni assai lontani. Senza andare troppo indietro nel tempo, data almeno dagli anni ’60. Tanto basta a evidenziare che non nasce da ragioni contingenti. Il nuovo modello di processo penale l’ha acuita, ma la questione, antica, si radica nella diversità di contenuto delle funzioni del magistrato che formula l’accusa e di quello che decide, nella profonda differenza dell’attività degli stessi, benché accomunata dal fine di giustizia, e, quindi, nell’esigenza di distinguere con chiarezza le due figure, anche sotto il profilo ordinamentale. La riforma Cartabia, ha definitivamente preso e dato atto di tale diversità, sancendo la sostanziale separazione delle funzioni, che non giustifica più il permanere delle commistione; anzi, è proprio essa ad imporre la distinzione che la riforma attua. Tale separazione rende, infatti, non ragionevole e non giustificata la compresenza delle due diverse figure di magistrato in uno stesso Csm. Non giustifica una comunanza che si sviluppa, tra l’altro, nel partecipare insieme alla competizione elettorale per il Csm, ma anche attraverso rapporti che, se intercorrono con un’altra parte (l’avvocato) impongono l’obbligo dell’astensione, disciplinarmente sanzionato, senza che rilevi in contrario correttezza ed ineccepibilità della decisione.
Non è in questione il distacco personale del giudice, ma è in questione anzitutto un problema d’immagine della terzietà del giudice – ma l’immagine, ai fini della fiducia, è essenziale –, che la riforma si impone di preservare al livello più alto, com’è doveroso, eliminando ogni forma (e sostanza) di non più giustificata colleganza. La realizzata separazione delle funzioni, nel perdurare della convivenza delle figure all’interno dello stesso organo di governo autonomo, pregiudica altresì la realizzazione (e, l’esperienza insegna, la rende sostanzialmente impossibile) di un modello di organizzazione per il pm che deve essere necessariamente diverso e distinto da quello del giudice, per garantire che il processo penale sia sollecitato dalla pubblica accusa con criteri convergenti, al fine di evitare una frammentazione lesiva del principio di eguaglianza e la personalizzazione della funzione. Dunque, ad uno stesso tempo, la separazione rafforza la terzietà del giudice – la cui autonomia ed indipendenza non è toccata, non si comprende quindi come e perché metterebbe in pericolo i diritti, la cui tutela risulta anzi accresciuta - ed esalta la specificità delle funzioni del pm, garantendole al meglio.
Con la separazione il pubblico ministero diventa più forte o più assoggettato alla politica? E davvero un pm separato rischia di essere più permeabile al potere esecutivo?
Nelle interviste richiamate definii una «congettura» il timore della separazione quale anticamera della sottoposizione al potere esecutivo che, in quanto tale, «non ha la consistenza e la concretezza per favorire un dibattito serio». Il testo risultante dalla riforma è chiaro: il pm resta un magistrato (art. 102); fa parte di «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104); alla sua carriera resta preposto il Csm (art. 105); continua a godere delle stesse garanzie di oggi (artt. 104, 105 e 107). Questo dicono le norme nel testo riformato. Adombrare il timore posto dalla domanda non è giuridicamente possibile, a meno di non ritenere, come non può essere, che l’attività di interpretazione è “creativa” al punto da far dire alle norme ciò che non dicono.
Quanto, invece, al temuto rischio di un pm reso troppo forte dalla separazione, la considerazione, da sola, dimostra l’inconsistenza della preoccupazione che la riforma lo indebolisca (che, peraltro, ho sempre decisamente escluso) per il logico contrasto tra le due ipotesi. All’esito di un approfondimento e dello studio che, come detto, sempre si impone, ho rimeditato le mie conclusioni. Anzitutto, per la fiducia nei magistrati, compresi quelli del pm, che se c’è, come deve esserci, impone di escludere che i pm, solo perché costituiti in un ordine autonomo e indipendente, possano improvvisamente smarrire la finalità di giustizia che caratterizza la loro azione. In realtà, la separazione, come realizzata dalla riforma, permetterà invece di affinare i criteri, professionali e deontologici, che devono ispirare la loro azione, alla luce della trasformazione dell’obbligatorietà dell’azione penale da regola a principio, di più stringenti presupposti per l’iscrizione del procedimento penale ed in ordine ai tempi dell’indagine e del nuovo parametro della “ragionevole previsione della condanna”. La fiducia nei magistrati del pm induce anche a ritenere che la cultura della giurisdizione, intesa come cultura del rendere giustizia, dell’agire giudiziario, cultura del processo e della dialettica, della quale devono essere partecipi tutte le parti, anche gli avvocati, non andrà certo dispersa, ma anzi potrà essere affinata, con riguardo alla specificità delle funzioni, grazie alla separazione e ad un Csm solo a loro dedicato.
Quanto sarebbe realmente preoccupante un pm influenzato dall’Esecutivo, se già esiste una legge, finora non applicata, che dovrebbe stabilire criteri chiari di priorità per l’azione delle procure?
Ho già sottolineato come non sia serio preoccuparsi di una mera congettura. La previsione della legge sui criteri di priorità dimostra poi che vi è un problema serio, che è quello dell’esigenza, sottolineata nella relazione della Commissione Lattanzi, di tenere conto di «un’architettura costituzionale nella quale le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento» (benché si proponesse di realizzarla mediante periodici atti di indirizzo del Parlamento). Nulla cambia quanto al rilievo ed alla valenza dei criteri di priorità con riferimento al pm nell’assetto proposto dalla riforma, ma certo possono essere meglio modulati ed attuati con riferimento ad un pm magistrato, che agisce per fini di giustizia, e grazie ad un Csm per i magistrati requirenti.
È vero che i pm, attualmente, condizionano le carriere dei giudici?
Di condizionamento delle carriere, in senso stretto, non può parlarsi, tenuto conto della percentuale dei pm presenti nell’attuale Csm Ma è evidente una compartecipazione alle scelte di carriera che già nell’assetto della mera separazione delle funzioni non è più ragionevolmente giustificata e che è necessario evitare del tutto. Occorre garantire “a ciascuno il suo”, senza alcuna commistione che possa pregiudicare l’immagine (e non solo) di terzietà del giudice.
Un pm più autonomo e identificabile come parte accusatoria rischia di alimentare il processo mediatico, oppure la riforma va nella direzione opposta?
La separazione non può alimentare il processo mediatico, che riposa su complesse ragioni di cui ho tentato di dare conto nei miei interventi all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un pm separato potrà ulteriormente affinare professionalità e deontologia in grado di limitare un fenomeno che comunque, in larga parte, non è imputabile ai magistrati, requirenti e giudicanti. La separazione realizzata dalla riforma permetterà di fare chiarezza e, distinguendo la figura del requirente e del giudicante, garantirà la maturazione in tutti del convincimento che la distinzione di compiti e fini assegnati degli uni e degli altri impedisce in radice di attribuire agli atti del pm quella connotazione di condanna, lesiva della presunzione di non colpevolezza, che ancora, purtroppo, è radicata nel sentimento comune. Si pensi al fatto che, benché la riforma Cartabia, con l’art. art. 335 -bis c.p.p. abbia stabilito che la mera iscrizione nel registro degli indagati non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito, è duro a morire il convincimento di colpevolezza. Convincimento che si alimenta anche, forse soprattutto, dell’ambiguità circa lo statuto, il ruolo ed i compiti delle due diverse figure di magistrato, eliminata dalla riforma.
Il sorteggio dei componenti del Csm sancisce finalmente l’indipendenza dei magistrati dalle correnti o ha limiti?
In passato, ho avuto dubbi sul sorteggio e sulla logica dell’uno vale uno alla luce del principio di rappresentanza. Il successivo, ulteriore approfondimento che, come detto, non deve avere mai fine, mi ha convinto di una differente conclusione. In particolare, la Corte costituzionale ha escluso «che il Consiglio rappresenti, in senso tecnico, l’ordine giudiziario» (sent. n. 142/1973); ha affermato che «è nella logica del disegno costituzionale che il Consiglio sia garantito nella propria indipendenza, tanto nei rapporti con altri poteri quanto nei rapporti con l’ordine giudiziario, “nella misura necessaria a preservarlo da influenze” che potrebbero indirettamente pregiudicare “l’esercizio imparziale dell’amministrazione della giustizia”» (sent. n. 148/1983, richiamando anche la n. 44/1968); ha ritenuto la presenza nelle sezioni (Commissioni) di magistrati appartenenti a differenti categorie necessaria «non perché si faccia luogo a rappresentanza di interessi di gruppo», ma affinché «al governo della magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono portatrici» (sent. n. 12/1971).
Ebbene, detti principi escludono che debba necessariamente trovare applicazione l’elezione, quale corollario del principio di rappresentanza, non evocabile come lo è, invece, per l’elezione degli organi di governo politico e amministrativo. Trattandosi poi di designazione all’interno di una categoria professionale di altissimo livello, è giustificato il ricorso a criteri di automatismo. Criterio che caratterizza anche la scelta dei magistrati nei processi, e ancora più si giustifica perché le attribuzioni del Csm esigono competenza nella materia dell’ordinamento giudiziario, propria di tutti i magistrati. Inoltre, questi, per Costituzione, si distinguono solo per funzioni, ciò che ulteriormente legittima il sorteggio. La riforma non mina, quindi, l’autorevolezza del Csm e conserva la rilevanza dell’Anm, quale sede deputata al confronto ed all’elaborazione delle idee che costituiscono l’humus della magistratura, senza preoccupazioni elettoralistiche legate al Csm, alla quale spettano altresì compiti importanti, tra gli altri, quale custode del codice etico dei magistrati.
L’istituzione dell’Alta Corte sottrae ai Csm la giustizia disciplinare: perché si è resa necessaria e quali effetti avrà sul rapporto tra magistrati e responsabilità disciplinare?
Ritengo anzitutto di dovere dare atto che la giurisdizione disciplinare del Csm ha dimostrato di non essere “domestica” e di essere giusta, fermo che è comunque sbagliato utilizzare aggettivi quali severa e/o mite, mai predicabili per la giustizia. Tuttavia, la congruità di cui ha dato prova non inficia le ragioni della riforma. Tra queste, l’esigenza di evitare la convergenza tra indirizzi amministrativi e riscontro degli stessi in sede disciplinare e di tenere conto dell’incompatibilità di alcune importanti funzioni, alle quali la riforma Cartabia ha posto rimedio solo in parte. L’esigenza di rafforzare l’immagine di terzietà ed imparzialità rende, inoltre, opportuno evitare l’elezione dei giudici, che non si confà ad una giustizia che, diversamente da quanto accade per gli ordini professionali, non è “tra pari”. La responsabilità disciplinare dei magistrati non è verso l’ordine, ma verso l’ordinamento generale; ciò dà ragione del carattere giurisdizionale del relativo procedimento e giustifica l’attribuzione del giudizio all’Alta Corte, ma anche il sorteggio, poiché i sorteggiati sono chiamati ad agire quali magistrati e, dunque, per essi vale la regola, posta dalla Costituzione, che «si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni».
La tipizzazione dell’illecito disciplinare giustifica poi l’attribuzione ad un giudice diverso dal Csm di un’attività che è di sussunzione di una condotta in una fattispecie tipizzata. L’Alta Corte permetterà altresì di eliminare gli equivoci, derivanti anche dalla commistione di molte funzioni in capo al Csm, in ordine alla finalità della responsabilità disciplinare, che è solo di accertare un illecito ed irrogare una sanzione con effetti sul rapporto di impiego, restando immutate le competenze del Csm in materia di professionalità e deontologia, vera sfida che meglio i futuri Consigli superiori potranno affrontare. L’Alta Corte rafforzerà la fiducia nella magistratura - e non è poco -, senza incidere sulle garanzie di autonomia e indipendenza: la sua composizione rende insostenibile immaginarla come una sorta di longa manus del potere esecutivo. I dubbi sulla mancata estensione della giurisdizione ai magistrati amministrativi e contabili, che pure avevo avuto, non reggono alla luce della diversità di status tra magistrati ordinari e amministrativi, che giustifica, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 87/2009), la profonda diversità dei procedimenti e dei rimedi esperibili avverso i provvedimenti sanzionatori e, quindi, esclude che possano essere attribuiti all’Alta Corte. Carattere, tipicità ed origini della giurisdizione dell’Alta Corte escludono, infine, contrasti con il divieto di istituzione di giudici speciali e giustificano il sistema impugnatorio previsto, concentrato in capo all’Alta Corte.
Come può una riforma così tecnica, sottoposta a referendum popolare, influire sulla fiducia dei cittadini nella magistratura senza ridurre il dibattito a slogan o semplificazioni?
La considerazione insita nella domanda è chiara e va sottolineata. Si tratta di una riforma tecnica che, ovviamente, ha conseguenze sulla vita dei cittadini, ma che non può vedere contrapposizioni quali quelle che connotano una competizione per un’elezione politica. Non a caso, la presenza tra i sostenitori del “Sì” di autorevoli personalità della sinistra, che si sono esposti anche mediante pubbliche dichiarazioni, è la dimostrazione lampante che il voto non deve essere espresso in base ad appartenenze partitiche. È difficile non affidarsi agli slogan, ma deve essere chiaro che la riforma non è contro la magistratura, non la mortifica e non la rende più debole; non incide su autonomia e indipendenza dei magistrati, siano essi giudici o pm. La riforma non incide sui diritti dei cittadini e gli permetterà di avere due figure di magistrati, che operano entrambe a fini di giustizia, ma con ruoli e compiti diversi, eliminando ogni ambiguità e facendo chiarezza, rafforzando immagine e sostanza di un giudice terzo ed imparziale, che continuerà a garantirli e, quindi, i cittadini hanno solo da guadagnare da questa riforma, alla quale va detto “Sì”.