Esclusiva
«Questo caso ha visto di tutto: occultamento di prove, estorsione di dichiarazioni, violazione dell’immunità parlamentare, parzialità giudiziaria, abuso della custodia cautelare, arresti eseguiti per finalità puramente investigative. E le fughe di notizie non erano casuali: erano funzionali, sin dall’inizio, a costruire una presunzione di colpevolezza». A parlare in esclusiva al Dubbio è Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento europeo, il “volto” della presunta vicenda di corruzione nel cuore del Parlamento europeo che, a tre anni dagli arresti, è ferma al palo. Proprio grazie alle denunce e alle indagini difensive di Kaili e di suo marito Francesco Giorgi, ex assistente parlamentare, sono emersi particolari inquietanti sui metodi della giustizia belga. A partire dalla “squadra Medusa”, il gruppo costituito dai poliziotti dell’ufficio anticorruzione e dai principali giornalisti investigativi del Belgio, che il giorno prima degli arresti avevano già pronti gli articoli per la pubblicazione, quando l’operazione non era ancora scattata.
Sono passati esattamente tre anni dagli arresti: il processo non è mai iniziato, ma grazie anche alle vostre denunce è emerso un processo parallelo a quello giudiziario, con una costruzione mediatica della vicenda. Vuol dire che questo scandalo è frutto di una manipolazione?
Le fughe di notizie esistono in molti contesti giudiziari. Nel nostro caso, però, non erano episodiche né casuali: erano sistematiche, selettive e funzionali alla costruzione di una presunzione di colpevolezza fin dall’inizio. Titoli, bersagli e narrazione risultavano chiaramente definiti a monte. Tutto ciò che è seguito è stato un tentativo continuo di piegare i fatti a una storia già scritta. Non immaginavo che le nostre denunce avrebbero fatto emergere l’esistenza di una vera e propria “terra di mezzo” tra giustizia, media e potere.
C’è stato un momento specifico in cui ha capito che la copertura mediatica e le fughe di notizie non erano casuali?Sì, fin dai primissimi giorni. Ho appreso dai giornali dettagli su ciò che mi stava accadendo prima ancora di poterli conoscere attraverso i miei legali. È stato subito evidente che l’informazione non seguiva l’indagine, ma la precedeva e la plasmava.
Il dossier parla esplicitamente di un “piano di battaglia” e di una squadra chiamata “Medusa”. Qual è stata la sua reazione nello scoprire che c'era un sistema così organizzato per far trapelare informazioni, e che questo sistema era guidato da un direttore dell'anticorruzione?
Soprattutto una profonda delusione per il fatto che uno Stato membro democratico dell’Ue non abbia rispettato gli standard minimi di un processo equo. Quelle fughe di notizie non erano accidentali; erano il risultato di una strategia deliberata. La presunzione di innocenza è stata distrutta dal procedimento stesso e sono state messe seriamente a rischio delle vite, comprese quelle della mia famiglia e di mia figlia. Alcuni giornalisti — Louis Colart, Joël Matriche e Kristof Clerix — insieme a chi li ha seguiti acriticamente, hanno abbandonato ogni principio etico, rinunciando alla neutralità e utilizzando metodi dannosi sia per le persone coinvolte sia per la credibilità del giornalismo come professione. Esiste una giurisprudenza consolidata su condotte di questo tipo e ora spetta ai tribunali accertare le responsabilità.
Ritiene che le indagini debbano essere completamente azzerate alla luce di questi nuovi sviluppi?
Questo caso ha visto di tutto: occultamento di prove, estorsione di dichiarazioni, violazione dell’immunità parlamentare, parzialità giudiziaria, abuso della custodia cautelare, arresti eseguiti per finalità puramente investigative. E questo è solo un elenco parziale. L’aspetto più grave è che nulla di tutto ciò è stato accidentale. Le violazioni sono state intenzionali e hanno contaminato in modo irreversibile l’intero procedimento, rendendo impossibile qualsiasi processo equo. Per questo oggi la questione non si limita alle nullità procedurali, ma riguarda anche potenziali responsabilità penali, soprattutto considerando che il direttore dell’Ufficio anticorruzione belga è già indagato.
Per quale motivo, secondo lei, sarebbe stato messo in piedi tutto questo? Perché proprio lei, che fino al 9 dicembre non era considerata un possibile membro di quell’organizzazione, a un certo punto ne è diventata il simbolo?
È una domanda che dovrebbe essere rivolta a chi ha ideato e sostenuto questo meccanismo. Se i fatti avessero davvero contato, questo caso non sarebbe mai stato collegato a me.
Il Parlamento europeo la scaricò subito, impedendole anche di difendersi. Lei ha fatto una denuncia, ma i legali dell’Eurocamera sostengono che non ci sia stata alcuna violazione. Ha ancora intenzione di perseguire l’Eurocamera?
In questa vicenda il Parlamento europeo ha perso la propria integrità istituzionale. Cedendo alle pressioni giudiziarie, la sua Presidente ha creato un precedente estremamente pericoloso, violando le garanzie europee poste a tutela dell’indipendenza del mandato parlamentare. Inoltre, il Parlamento si è costituito parte civile contro di noi e ha respinto la nostra richiesta di audizioni pubbliche. Abbiamo chiesto trasparenza; ci è stata negata. Un’istituzione sicura della propria posizione non temerebbe il controllo pubblico dopo aver esposto delle persone a un processo mediatico. Il rifiuto non riguardava la giustizia, ma il tentativo di proteggersi da fatti che ancora si rifiuta di affrontare. A mio avviso, il ripristino dell’ordine giuridico e politico richiederà un’azione davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Il Parlamento ha votato per la revoca dell’immunità della sua ex collega Moretti. Anche nel suo caso, gli elementi sono pochi e contraddittori. È stata una scelta politica o c’è ancora un problema con la difesa della democrazia?
La revoca dell’immunità ad Alessandra Moretti rappresenta l’ultimo episodio di questa deriva istituzionale. Mi rallegro tuttavia del fatto che, nel suo caso, il gruppo S&D abbia avuto per la prima volta in tre anni uno slancio garantista e abbia deciso, giustamente, di sostenerla. Meglio tardi che mai.
Questa impossibilità di chiarire la sua posizione le ha impedito di ricandidarsi?
Sì. È stata la conseguenza diretta di un provvedimento giudiziario che mi ha proibito, per oltre un anno, qualsiasi contatto con la stampa sotto la minaccia di arresto. Ciò costituisce una grave violazione di un diritto fondamentale, resa ancora più grave dal fatto che all’epoca ero ancora deputata al Parlamento europeo. In quelle condizioni mi è stato impedito non solo di difendermi, ma anche di esercitare pienamente i miei diritti politici. È stato un modello di abuso di potere da parte di un sistema più preoccupato di salvare la faccia che di scoprire la verità.
Pochi giorni fa è stata messa a segno una nuova operazione anticorruzione. Ancora una volta a finire nel mirino ci sono degli italiani. Pensa sia una coincidenza o ci vede un sistema?
Il fermo di Mogherini e Sannino al solo scopo di interrogarli ha messo in luce una grave incompatibilità tra il funzionamento libero delle istituzioni europee e il sistema giudiziario inquisitorio del Paese che le ospita. Penso che Matteo Renzi abbia ragione quando parla della necessità di un sussulto di dignità da parte dell’Italia.
C’è, secondo lei, una motivazione politica dietro queste vicende?
Quando le indagini colpiscono ripetutamente gli stessi profili con gli stessi metodi, è legittimo chiedersi se vi sia una motivazione che va oltre la sfera giudiziaria. I servizi di intelligence di diversi Stati membri dell’Ue sono stati coinvolti. Dove esistono dinamiche di questo tipo, spesso seguono interessi finanziari o geopolitici, ma il compito di far emergere questi collegamenti spetta al giornalismo investigativo.
Qual è oggi il suo stato d’animo: prevale l’amarezza per il danno subito o la speranza che la verità sul “sistema” possa portare a un’assoluzione nel merito?
L’esistenza di giudici come Olivier Anciaux, che ha avuto il coraggio di condurre un’indagine controcorrente rispetto all’apparato giudiziario dominante, mi consente di conservare fiducia nella magistratura e nella possibilità di una decisione imparziale, fondata sui fatti e non sulla propaganda.