Le motivazioni
«La condotta del pubblico agente che eserciti la propria funzione in conflitto di interessi non dimostra di per sé la corruzione». È un passaggio netto, destinato a pesare nel dibattito giudiziario e politico, quello contenuto nelle motivazioni della sentenza depositata il 13 novembre dalla Corte di Cassazione.
La VI Sezione penale, presieduta da Giorgio Fidelbo con estensore Fabrizio D’Arcangelo, ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Milano contro le ordinanze del Tribunale del Riesame che, a metà agosto, avevano annullato gli arresti domiciliari per carenza di gravi indizi di corruzione.
Al centro del procedimento gli indagati Manfredi Catella, Alessandro Scandurra, componente della Commissione Paesaggio del Comune di Milano, e Andrea Bezziccheri.
Secondo la Suprema Corte, «nel sistema penale non esiste una corruzione “senza accordo” e, dunque, senza prova del patto corruttivo». Un principio che rafforza la linea già tracciata dal Riesame: il conflitto di interessi, da solo, non basta a fondare l’ipotesi di reato.
I giudici spiegano infatti che «il Tribunale del riesame non ha violato la legge penale, né motivato in modo manifestamente illogico» nel ritenere che i pagamenti effettuati da Coima per gli incarichi professionali conferiti all’architetto Scandurra non costituissero una illecita remunerazione. Si tratterebbe, secondo la valutazione dei giudici, di incarichi «con una causa autonoma dallo svolgimento delle pubbliche funzioni (e dunque lecita), effettivamente svolti, regolarmente contabilizzati e privi di sovrafatturazione».
Un passaggio centrale delle motivazioni riguarda proprio la prova del patto corruttivo. La Cassazione chiarisce che essa «non può esaurirsi, neppure in sede cautelare, nella mera prova della dazione indebita al pubblico agente». Quest’ultima, precisano i giudici, «può costituire un indizio sul piano logico del reato di corruzione, ma non può di per sé rappresentarne la prova».