Dalle parti di Roma si resta cauti. E infatti quasi nessuno, dopo l’atteso verdetto della Consulta arrivato lunedì sera, si azzarda a cantare vittoria nel duello tra governo e Regioni sul fine vita. Non Palazzo Chigi, che aveva impugnato la legge della Toscana sul suicidio assistito. Né chi segue il dossier ormai fermo da un paio di mesi nelle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali al Senato. E il perché si capisce: la sentenza della Corte non sigilla una sconfitta, né promuove a pieni voti. Ma si traduce in un messaggio chiaro a tutti, e soprattutto a chi siede in Parlamento: il legislatore non ha più alibi per rimandare una norma nazionale che il Paese aspetta da anni.
Lo fa notare anche il dem Alfredo Bazoli, principale negoziatore in campo nella partita con il centrodestra a Palazzo Madama. Perché ora la maggioranza, ragiona il capogruppo Pd in commissione Giustizia, non può «continuare a boicottare la discussione». Anzi: «Alla ripresa dei lavori a gennaio è doveroso che le commissioni portino al voto gli emendamenti depositati mesi fa, per consentire l’approdo in Aula» del ddl confezionato da Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Ignazio Zullo (Fratelli d’Italia).
Per Bazoli, infatti, la sentenza della Corte conferma una «inderogabile necessità di procedere con l’approvazione di una legge nazionale». Alla luce di quel dato politico che per il governo assomiglia a un autogol: chi sperava di frenare il dilagare di norme locali ha ottenuto di fatto l’effetto contrario, consegnando alle Regioni un tracciato preciso in cui muoversi per formulare leggi costituzionalmente legittime. Ma soprattutto, chi – all’interno del centrodestra - ha guidato in questi mesi la fronda del no al suicidio assistito confidando in un diverso orientamento della Corte, dovrà rassegnarsi: la Consulta non ha alcuna intenzione di tornare sui propri passi, restringendo il perimetro delineato con la sentenza 242 del 2019, la cosiddetta Cappato/dj Fabo.
Quella decisione, ormai sei anni fa, ha sancito quattro criteri per accedere al suicidio assistito: che il paziente sia affetto da una patologia irreversibile, che sia in grado di autodeterminarsi, che reputi le proprie sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, che dipenda da “trattamenti di sostegno vitali”. Non solo macchine a cui staccare la spina, come ha chiarito la Corte con la sentenza numero 135 del 2024, ma procedure necessarie alla sopravvivenza del malato, comprese alcune delle pratiche messe in atto dai caregiver.
Ecco i confini, da cui non si scappa. Come sottolinea anche il costituzionalista Stefano Ceccanti, che nell’ultima decisione dei giudici legge «un’importanza sistemica»: «L’impugnativa del Governo sulla legge toscana – argomenta l’ex parlamentare dem - rifletteva gli umori di quei pezzi di FdI e della Lega che confidavano su una svolta giurisprudenziale della Corte dopo il cambio della sua composizione, con quattro nuovi giudici di estrazione parlamentare. Quei settori immaginavano non solo che la legge toscana potesse saltare per intero, ma anche che la possibile chiusura sul tema rispetto alle sentenze precedenti potesse esonerare il Parlamento dal votare una legge o consentisse allo stesso di vararne una ultra-restrittiva. Invece la Corte ha salvato la sostanza della legge toscana perché ne risulta un testo comunque applicabile e ha confermato la giurisprudenza precedente, pur consentendo in astratto al Parlamento qualche lieve margine di oscillazione rispetto ad essa». Il succo della sentenza, dunque, sta tutto qui: la Toscana, prima in Italia a dotarsi di una legge, aveva facoltà di disciplinare gli aspetti organizzativi del fine vita. Ma senza esondare nel terreno di competenza dello Stato. Per questo motivo i giudici costituzionali hanno respinto le censure che miravano a cancellare interamente la legge, ma hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni che hanno «illegittimamente invaso sfere di competenza riservate alla legislazione statale». Tra queste c’è l’articolo 2, che individua i requisiti per l’accesso al suicidio assistito rinviando al dettato costituzionale. Pur non creando nuove condizioni, infatti, tali disposizioni a parere della Corte sono illegittime perché alle regioni è «precluso cristallizzare nelle proprie disposizioni principi ordinamentali affermati» dalla Corte «in un determinato momento storico», agendo «in via suppletiva della legislazione statale». Bocciati anche i riferimenti ai tempi di gestione delle richieste, considerati troppo stringenti, e il riferimento alla figura di un “delegato” del paziente.
Per il resto, la legge toscana regge. E fa dire alla Corte qualcosa di molto importante. Pur cassando l’articolo 7 della legge toscana che impegnava le Asl «ad assicurare il supporto tecnico e farmacologico nonché l’assistenza sanitaria per la preparazione all’autosomministrazione del farmaco autorizzato», i giudici infatti chiariscono che resta «intatto il diritto della persona, in relazione alla quale siano state positivamente verificate le condizioni per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, di ottenere dalle aziende del Servizio sanitario regionale il farmaco, i dispositivi eventualmente occorrenti all’autosomministrazione, nonché l’assistenza sanitaria anche durante l’esecuzione di questa procedura». Si tratta del nodo centrale su cui si è arrovellato per mesi il centrodestra, tra le aperture degli azzurri e il diktat di Fratelli d’Italia nell’escludere il ruolo del Servizio sanitario nazionale dai percorsi di fine vita. Sarà questo il primo ostacolo da trattare quando riprenderanno i lavori, in attesa di conoscere i pareri della commissione Bilancio per procedere all’esame degli emendamenti. Secondo fonti di maggioranza, già dal 7 gennaio si potrà procedere a una convocazione delle commissioni riunite Affari sociali e Giustizia. Intanto, dicono le stesse fonti riportate dall’Ansa, sarebbe in corso una fase di studio e di approfondimento dell’ultima sentenza della Corte, che potrebbe portare anche a una riapertura del termine per la presentazione degli emendamenti. E a un nuova fase di mediazione sul testo. Senza trascurare almeno un altro paio di elementi che complicano il quadro. Da una parte l’alt del Vaticano, che dopo le aperture del presidente della Cei Matteo Zuppi, si è tradotto nella «delusione» espressa da Papa Leone XIV per la legge da poco approvata in Illinois. Dall’altra la mossa dell’Associazione Luca Coscioni, promotrice del testo toscano, che ha già annunciato l’intenzione di rilanciare la propria campagna in tutte le Regioni, «apportando le modifiche richieste dalla Corte e confermando il pieno coinvolgimento del Servizio sanitario, che il Governo vorrebbe abrogare con la proposta di legge in discussione in Parlamento».