La ricerca della “zona grigia” pare essere l’assillo principale degli inquirenti nelle indagini su fatti collegati alla criminalità organizzata come al terrorismo. Non sfugge a questo grande interrogativo, anche se, come sappiamo, nelle parole dei magistrati le domande diventano certezze, l’inchiesta genovese che ha portato sabato scorso all’arresto di Mohammed Hannoun e altre sei persone. Un’operazione che si è mostrata in grande spolvero. Non solo per l’espansione geografica, da Genova a Milano e altri centri del nord Italia, o per il numero degli indagati, sette in custodia cautelare, due ricercati e 25 sospettati. Ma soprattutto perché tutte le attività investigative, che hanno coinvolto la Digos e la Guardia di Finanza, sono coordinate dalla Direzione Nazionale Antimafia del procuratore Giovanni Melillo.
Anche per questo è stata inevitabile l’immediata lettura politica dell’intera operazione, considerata grandiosa in Italia dalla parte che sostiene il governo Meloni, mentre dall’altra parte ci si è limitati a sorprendenti fuggi-fuggi. Perché improvvisamente questo architetto palestinese pareva non conoscerlo più nessuno, neppure coloro che lo avevano invitato nelle diverse università e addirittura in Parlamento. “Area grigia”, però, trattata come nelle inchieste di Nicola Gratteri quando era il procuratore di Catanzaro e indagava sulla ‘ndrangheta. Alla base c’è sempre il reato associativo, quello che non si nega a nessuno e che consente subito la richiesta, e spesso l’accoglimento, della custodia cautelare e il gran contorno di intercettazioni, telefoniche e ambientali.
Ma poi, quando è il momento di verificare la sostanza della prova, ecco che troppo spesso si inciampa nella “zona grigia”. L’architetto Hannoun, per esempio, non pare proprio un soggetto con il ramoscello d’ulivo nel cuore. E’ invece una delle due persone (l’altro era il fratello) che, intercettazione dixit, nel 2002 “gioiscono per un’esplosione nel bar dell’università di Gerusalemme, dove sono morti nove civili”. E poi un anno dopo, sempre loro due, “festeggiano per un attentato su un bus nel quale sono stati uccisi 23 civili”.
E ancora, e questo è agghiacciante da parte di chi sostiene di raccogliere fondi per i bambini palestinesi, fa festa dopo un altro attentato proprio perché tra le vittime sono “compresi diversi bambini”. Questo il contesto “storico” che ha indotto in diverse fasi la procura di Genova, la città in cui l’architetto ha la residenza, a sottoporre Hannoun a indagini giudiziarie per terrorismo. Lo stesso procuratore Valente, oggi promotore della richiesta di custodia cautelare, ne aveva avanzato analoga richiesta quando era ancora un semplice sostituto. Sentite come gli aveva replicato il gip Maurizio De Matteis relativamente alla “simpatia” dell’architetto per il gruppo terroristico di Hamas. È vero, aveva scritto nell’ordinanza con cui respingeva la richiesta del pm, che «dagli atti d’indagine emerge una certa condivisione degli ideali dell’associazione in questione». Però, aveva ancora obiettato il gip, hanno «scarsa validità indiziante le frequentazioni e le manifestazioni di simpatia verso Hamas».
Ma c’è di più: «La pretesa di far discendere la contestazione dalla asserita commistione tra Hamas e le associazioni umanitarie è argomento appena sufficiente per un’analisi politica o sociale del fenomeno, ma non per una decisione giudiziaria». Ma eravamo nel 2006, altri tempi, altri scenari. E soprattutto non era ancora scoccata l’ora della data più tragica, quella del 7 ottobre 2023. Mohammed Hannoun ha nel frattempo “fatto carriera”, ha fondato diverse associazioni e cominciato raccogliere fondi per la solidarietà al popolo palestinese nella striscia di Gaza. O invece finanziamento all’area militare di Hamas?
La giudice Silvia Carpanini ritiene che non esista alcuna differenza tra politici e combattenti, pur sempre di terrorismo si tratta. Ma il punto è un altro. Esiste la prova concreta del fatto che i fondi partiti con denaro contante dall’Italia e poi transitati dalla Turchia e poi altri Paesi, diretti a Gaza in container con apparecchiature sanitarie, di cui si parla nell’ordinanza, siano arrivati nelle mani di Hamas? E quindi abbiano contribuito, con il finanziamento, a sostenere e promuovere un’attività terroristica che ha mostrato il suo peggiore volto sanguinario nel blitz del 7 ottobre?
L’operazione “Domino” (ma la legge Cartabia che vietava i nomignoli alle inchieste viene ancora ignorata?) della Dda e l’ordinanza della gip Carpanini non sciolgono per ora il dilemma. Anche perché esiste in queste indagini un altro punto molto dubbio. Che viene però esplicitato dalla giudice senza incertezze. La gran parte delle informazioni arrivano da servizi israeliani e anche dallo stesso esercito (Idf) che le ha elaborate in seguito a operazioni militari nel 2000 e poi nel 2023, dopo la strage del 7 ottobre. Non sono atti della giurisdizione, quindi le prove non sarebbero state raggiunte con le necessarie garanzie del contraddittorio processuale.
Il problema era stato affrontato già nel 2010 dalla pm Francesca Nanni, oggi procuratore generale di Milano, la quale, nel chiedere un’archiviazione che riguardava anche Mohammed Hannoun, aveva sollevato questo problema. Cioè della difficoltà di acquisire agli atti come prove documenti provenienti da un esercito in guerra. Non c’è da stupirsi se in questo quadro ancora così problematico, i difensori dell’architetto palestinese gli abbiano consigliato il quasi-silenzio: niente interrogatorio di garanzia, per ora, ma solo dichiarazioni spontanee per ribadire l’impegno in un’attività assistenziale e non finanziamento al terrorismo.