Come mai il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, poche ore dopo gli arresti dei presunti fiancheggiatori di Hamas in Italia, si sente in diritto - forse addirittura in dovere - di specificare che l'arresto nulla toglie "ai crimini commessi ai danni della popolazione palestinese successivamente al 7 ottobre 2023 nel corso delle operazioni militari intraprese dal Governo di Israele"?
Evidentemente il procuratore Melillo è convinto che la sua funzione abbia anche una dimensione politica. E del resto c'è un dato, inoppugnabile nella sua fredda evidenza documentale, che dovrebbe far riflettere chiunque abbia a cuore la salute delle nostre istituzioni. Se prendiamo l'elenco dei magistrati che hanno guidato la Direzione Nazionale Antimafia negli ultimi vent'anni, ci accorgiamo che via Giulia non è più soltanto il cuore del coordinamento investigativo contro i clan e terrorismo. È diventata, con una regolarità che toglie il fiato, una sorta di "scivolo" verso gli scranni più alti del Parlamento, un laboratorio dove il prestigio della lotta alla mafia si trasforma, quasi per inerzia, in capitale elettorale.
Non è un sospetto, ma una cronologia di fatti. Piero Grasso lascia la DNA nel 2012 e, in meno di cento giorni, si ritrova a presiedere il Senato della Repubblica. Franco Roberti chiude il mandato nel 2017 e pochi mesi dopo siede in una giunta regionale, prima di approdare al Parlamento Europeo con il Partito Democratico. Federico Cafiero De Raho, l'uomo che ha sfidato i Casalesi, va in pensione nel febbraio 2022 e a settembre è già il volto nuovo del Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati, dove oggi ricopre il ruolo di vicepresidente della Commissione Antimafia. In pratica, controlla da politico gli stessi uffici che guidava da magistrato. Questione diventata ancora più problematica quando la commissione ha indagato sul presunto dossieraggio avvenuto all'interno della DNA proprio nel periodo in cui De Raho era il capo.
Tutto legittimo, sia chiaro. Le leggi non lo vietano e le carriere dei singoli sono immacolate. Però resta una singolarità che non possiamo ignorare. Perché questo passaggio avviene quasi esclusivamente verso una precisa area politica? Se guardiamo alle storie di Grasso, Roberti e De Raho, la traiettoria punta sempre verso il centro-sinistra o verso quel populismo giudiziario che ha fatto della legalità una bandiera identitaria. Non si registrano ex capi della DNA candidati con la destra o il centro-destra. E questo pone un problema gigantesco di percezione.
Immaginiamo un cittadino che guarda a quei vertici. Come può non porsi la domanda se, negli ultimi anni di servizio, quelle scelte, quelle conferenze stampa, quelle priorità investigative non fossero già orientate, magari anche inconsciamente, verso il futuro approdo politico? Il rischio è che la "sacralità" dell'Antimafia venga usata come un certificato di garanzia etica per coprire le fragilità di partiti che hanno bisogno di eroi per nascondere i propri limiti.
C'è poi un tema di potere reale. Il Procuratore Nazionale Antimafia gestisce archivi sterminati, conosce i segreti di decine di inchieste che incrociano il mondo della politica e dell'economia. Quando quel patrimonio informativo finisce nelle mani di un deputato o di un senatore che deve scrivere leggi o votare immunità, si crea un cortocircuito. Non è più una partita ad armi pari. È come se un arbitro, a metà partita, si togliesse la giacchetta per indossare la maglia di una delle due squadre in campo, portando con sé il fischietto e il taccuino delle ammonizioni.
Lo scriveva Leonardo Sciascia, con quella lungimiranza che oggi suona quasi profetica: l'antimafia - come lo fu durante il fascismo attraverso il prefetto di ferro - può diventare uno strumento di potere, un'etichetta che mette a tacere ogni critica. Perché chi osa contestare un ex magistrato antimafia che ora fa politica viene subito accusato di essere un nemico della legalità o un amico dei boss. È un gioco pericoloso, che soffoca il dibattito, intossica la democrazia e polarizza la giustizia.
Perfino l'attuale capo della DNA, Giovanni Melillo, pur non avendo (ancora) chiesto voti, ha una storia che passa per le stanze dei ministeri, essendo stato il capo di gabinetto dell'allora ministro della giustizia Andrea Orlando. E a differenza dei suoi predecessori, Melillo ha almeno il merito di non negare l'evidenza. Alla festa de Il Foglio dell'anno scorso, interrogato proprio sulla riforma della separazione delle carriere, ha ammesso: "Riconosco che il problema esiste". Avrebbe potuto, come dice lui stesso, "buttare la palla in tribuna e dire che con la separazione delle carriere questo diventerebbe un fenomeno al quale tutti sarebbero chiamati ad abituarsi”. Invece ha confessato di aver chiesto, un anno e mezzo fa, all'ufficio legislativo del ministero della Giustizia di introdurre una norma che vieti al procuratore nazionale antimafia di candidarsi o di assumere incarichi di governo. "Mi rendo conto che non basterebbe a fugare i dubbi questo impegno, anche formale, ma credo che certamente non mi opporrei a questa norma. Ma non sta a me introdurla".
Parole che suonano come una confessione involontaria. Melillo ammette che il suo impegno personale a non candidarsi non basta, perché il punto non è la buona fede del singolo magistrato, ma l'architettura istituzionale che permette questo salto. Eppure, nonostante la sua richiesta, quella norma non c'è. È rimasta nei cassetti del ministero, sepolta sotto le urgenze quotidiane o forse sotto la resistenza di chi, in Parlamento, ha tutto l'interesse a mantenere aperta quella porta. La Riforma Cartabia ha provato a chiudere qualche porta girevole, ma per chi arriva a fine carriera la tentazione del Palazzo resta intatta. E il fatto che un procuratore in carica chieda di essere vincolato da una legge che ancora non esiste è la prova più lampante che il sistema, così com'è, è insostenibile.
Segno che il confine tra l'alta magistratura e l'alta politica è ormai così sottile da essere invisibile. Non si tratta più di casi isolati, ma di un percorso tracciato, quasi istituzionalizzato. La DNA è diventata, nei fatti, un trampolino di lancio verso le liste elettorali di una specifica area politica. E quando il magistrato che ha coordinato le più delicate inchieste contro la criminalità organizzata diventa, pochi mesi dopo, un parlamentare che vota su leggi che riguardano la giustizia, l'intercettazione, l'ergastolo ostativo, si crea un conflitto di interessi che nessuna buona fede può sanare.
Ecco il punto. Abbiamo bisogno di un'Antimafia che sia efficiente, silenziosa e, sopra ogni cosa, terza. Quando la toga diventa un'anticamera per il Palazzo, a rimetterci non sono solo i partiti, ma la credibilità stessa della magistratura. E il dubbio, quel tarlo che mina la fiducia dei cittadini, finisce per divorare anche le battaglie più giuste. Perché la giustizia non deve solo essere fatta, ma deve apparire imparziale. E questo salto continuo dalla scrivania del procuratore allo scranno del parlamentare ci dice che quell'apparenza è ormai un ricordo lontano. Melillo lo sa. Lo ha detto. Ha anche provato a fare qualcosa. Ma finché quella norma resta nel cassetto, il problema rimane. E con esso, il sospetto.