Alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione e della Corte europea dei diritti umani sembrano orientare il sistema della prevenzione patrimoniale verso standard più garantisti e maggiormente rispettosi dei principi del giusto processo. Tale evoluzione avvicina in modo significativo il procedimento di prevenzione al processo penale, segnando una presa di distanza dalle impostazioni presuntive che hanno tradizionalmente caratterizzato la materia.
In questa direzione si colloca la sentenza n. 30355/2025 delle Sezioni unite, nota come Putignano , che interviene sugli oneri gravanti sul terzo intestatario del bene oggetto di misura patrimoniale. Se, da un lato, le Sezioni unite chiariscono che il terzo non può interloquire sulla pericolosità sociale del proposto, dall’altro circoscrivono i suoi oneri di allegazione — e non di prova piena — al solo caso in cui il pubblico ministero abbia previamente assolto quello che la Corte definisce il primo passaggio della “catena logica dimostrativa”. È infatti necessario che l’accusa dimostri che il bene di cui si chiede la confisca sia nella reale disponibilità del soggetto pericoloso e che le risorse economiche utilizzate per acquisirlo siano di provenienza illecita. Tale dimostrazione può fondarsi su indizi, purché dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, in linea con i criteri previsti dal codice di procedura penale. In difetto di questo presupposto probatorio, il terzo non è tenuto ad alcuna allegazione. Il principio appare coerente con la natura eccezionale della misura ablativa e con l’esigenza di evitare ricadute in forme indirette di responsabilità oggettiva a carico di familiari o conviventi.
Sulla stessa linea si pone la sentenza della Corte EDU Isaia e altri c. Italia. I giudici di Strasburgo distinguono nettamente l’onere probatorio gravante sul proposto da quello relativo ai terzi coinvolti nel procedimento. Mentre per il primo resta fermo il principio secondo cui egli deve fornire giustificazione dell’eventuale sproporzione patrimoniale, per i terzi non può operare alcuna inversione dell’onere della prova fondata sul mero rapporto familiare o di convivenza. La prova della provenienza illecita dei beni, così come della loro effettiva disponibilità in capo al proposto, rimane in ogni caso a carico delle autorità nazionali. La Corte EDU afferma inoltre che spetta all’accusa dimostrare, con un grado di probabilità qualificato, non solo la fittizietà dell’intestazione, ma anche la provenienza illecita dei beni di cui si chiede la confisca. Non è sufficiente il riferimento alla sproporzione patrimoniale o all’incapacità reddituale del terzo: occorre dimostrare un collegamento concreto tra il bene e profitti derivanti da reati, non potendo la confisca fondarsi su presunzioni. Tale affermazione si pone in continuità con precedenti consolidati, nei quali la Corte ha ribadito la necessità di una correlazione temporale tra i reati e l’acquisizione dei beni, nonché di una proporzione ragionevole tra i profitti illeciti e il valore dei beni confiscati.
Di particolare rilievo è anche la precisazione secondo cui la confisca può riguardare esclusivamente il profitto del reato, e non il mero prodotto. Una distinzione che, sebbene possa apparire lessicale, cristallizza un principio destinato ad avere importanti ricadute applicative, poiché impedisce, ad esempio, di considerare come denaro illecito — nei casi di restituzione o risarcimento del danno — le somme successivamente impiegate per l’acquisto del bene oggetto di confisca.
La Corte EDU rivolge inoltre un invito al legislatore italiano affinché introduca un limite temporale entro il quale i beni possano essere aggrediti, al fine di evitare che diventi eccessivamente gravoso per l’interessato dimostrare la provenienza lecita di beni acquisiti molti anni prima dell’apertura del procedimento. Nel caso Isaia , tale limite risulta superato, fino a integrare una violazione del giusto equilibrio richiesto dall’art. 1 del Protocollo n. 1 CEDU.Infine, merita particolare attenzione la sentenza n. 30552/2025 della sesta sezione penale della Cassazione, che richiama con forza il rigore con cui il giudice della prevenzione deve valutare la “piattaforma indiziaria”. Un rigore addirittura superiore a quello richiesto in sede penale, poiché il deficit di garanzie del procedimento di prevenzione deve essere compensato da un accertamento più severo. In caso contrario, il rischio è quello di un’ablazione sganciata da criteri di adeguatezza e proporzionalità, e dunque potenzialmente incompatibile con i principi costituzionali. La sentenza riconosce i limiti ontologici della confisca di prevenzione, definita come una “via parallela alla regiudicanda penale”, nella quale tuttavia lo statuto processuale risulta obiettivamente debole. Ciò impone un rafforzamento del ruolo di garanzia del giudice, chiamato a esercitare una “terzietà compensativa” capace di bilanciare la riduzione degli oneri probatori gravanti sul pubblico ministero.
Nel complesso, il dialogo tra la Corte di Cassazione e la Corte EDU segnala un mutamento significativo nel sistema della prevenzione patrimoniale italiana. Le Corti convergono verso un maggiore rigore probatorio, una riduzione delle presunzioni implicite a carico dei terzi e una riaffermazione della centralità del nesso di derivazione tra il bene e i profitti illeciti. Al tempo stesso, viene valorizzato il ruolo del giudice della prevenzione quale garante effettivo dell’equilibrio tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali, evitando che la confisca sia disposta, in assenza di un vero accertamento penale, da un giudice chiamato a decidere in un rito di chiaro stampo inquisitorio, sugli stessi atti prospettati dall’organo di accusa. Un giudice che, proprio in questa prospettiva, deve essere totalmente separato dall’organo requirente. Ogni riferimento alla necessità di separare le carriere di chi accusa e di chi giudica non è affatto casuale…