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Nei diritti dell’imam di Torino troviamo i diritti di tutti

Shahin è libero perché un giudice ha chiesto le prove e le prove non c’erano. Una garanzia che vale per tutti, anche per la politica

20 Dicembre 2025, 13:30

Nei diritti dell’imam di Torino troviamo i diritti di tutti

Mohamed Shahin è uscito dal Cpr di Caltanissetta domenica scorsa, ed è divampata una polemica che non fa i conti con i dati reali. È stato liberato l'imam della moschea di Torino, quello finito al centro della bufera per le frasi sulla manifestazione pro-Palestina, quello che il ministro Piantedosi aveva deciso di espellere. Eppure, leggendo l’ordinanza del giudice Ludovico Morello della Corte d’Appello di Torino, viene da pensare che il sistema abbia funzionato esattamente come dovrebbe.
Il problema è che questo non piace al governo. «Come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?», ha tuonato la premier Meloni. La risposta è semplice, anche se scomoda: la sicurezza degli italiani si difende rispettando le regole. Tutte.


Cosa dice davvero l'ordinanza
Il 28 novembre la stessa Corte d’Appello di Torino aveva convalidato il trattenimento di Shahin. Ma il 15 dicembre, dopo un riesame richiesto dai suoi avvocati, lo stesso giudice Morello ha cambiato idea. Non per simpatia, non per ideologia. Per fatti nuovi. La direttiva europea 2013/33 è chiara: il trattenimento può essere riesaminato «qualora si verifichino circostanze o emergano nuove informazioni che possano mettere in discussione la legittimità del trattenimento». E qui le informazioni nuove sono arrivate eccome.
Prima questione: i procedimenti penali. Il governo aveva basato il decreto di espulsione sulla «pericolosità sociale» di Shahin. Le prove? Due procedimenti penali. Il primo riguardava le frasi pronunciate alla manifestazione del 9 ottobre 2025. Quelle frasi aberranti sul 7 ottobre, quelle che nessuno può difendere. Ma c’è un dettaglio che cambia tutto: la procura di Torino aveva archiviato il caso già il 16 ottobre. Sette giorni dopo i fatti. L’autorità giudiziaria aveva stabilito che quelle parole, per quanto ripugnanti, erano «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato», quindi pienamente coperte dagli articoli 21 della Costituzione e 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Il giudice Morello lo scrive nero su bianco: «Altro aspetto è la condivisibilità o meno di tali affermazioni e/o la loro censurabilità etica e morale, ma tale giudizio non compete in alcun modo a questa Corte e non può incidere di per sé solo sul giudizio di pericolosità in uno Stato di diritto». Tradotto: le idee schifose non sono reati.
E qui sta la differenza tra uno Stato di diritto e uno Stato di polizia. Nel primo caso, anche le opinioni più ripugnanti restano nel perimetro della libertà di espressione finché non sconfinano nel reato. Nel secondo, basta che qualcosa non piaccia (oggi al governo attuale, domani a quello del «campo largo») per diventare motivo di espulsione. Il secondo procedimento riguardava un blocco stradale del 17 maggio 2025. Anche qui, l’ordinanza è secca: «Condotta del trattenuto non connotata da alcuna violenza», Shahin era «meramente presente sulla tangenziale assieme ad altre numerose persone». Nessun comportamento violento, nessun elemento specifico che lo distinguesse dagli altri manifestanti.
C’è poi un passaggio dell’ordinanza che merita attenzione. Il giudice scrive che «gli atti relativi a tali procedimenti non risultano essere stati secretati». Cosa significa? Che al momento della prima convalida, il 28 novembre, si pensava che quegli atti fossero coperti da segreto. Questo aveva portato la Corte a valorizzare la pericolosità di Shahin. Ma era un abbaglio. Gli atti non erano mai stati secretati. La difesa lo ha dimostrato. E se non c’è segreto, non c’è nemmeno quell’alone di gravità che il segreto inevitabilmente crea.


Chi è veramente l'imam
L’ordinanza non si ferma ai procedimenti penali. La difesa ha prodotto documentazione che mostra «un concreto e attivo impegno del trattenuto in ordine alla salvaguardia della Costituzione italiana». In particolare, Shahin ha lavorato alla divulgazione della Costituzione tradotta in arabo presso la comunità islamica. Un elemento che «si pone in netto contrasto con il giudizio di pericolosità». Non è un dettaglio folkloristico. È la prova che l’immagine del «sovversivo pericoloso» non regge. Come può essere un pericolo per la sicurezza nazionale uno che diffonde la Costituzione italiana nella sua comunità? Poi ci sono i contatti con persone indagate o condannate per apologia di terrorismo. La Questura li aveva usati come prova. L’ordinanza li smonta: «Isolati e decisamente datati». Si parla di una identificazione del 2012 e di una conversazione del 2018, peraltro «intercorsa tra soggetti terzi». Shahin li ha spiegati durante l’udienza. Non sono stati ritenuti significativi. Infine, il dato personale: Shahin vive in Italia da oltre vent’anni, è «perfettamente integrato», è «completamente incensurato». Ha una famiglia, due figli che accompagnava a scuola quando è stato fermato. Non è un fantasma arrivato ieri. È un uomo con una vita, con radici profonde in questo Paese.


Perché ci riguarda tutti
Giorgia Meloni parla di «iniziative sistematicamente annullate da alcuni giudici». Ma qui non c’è stata nessuna iniziativa annullata per ideologia. C’è stata una decisione che ha preso atto di fatti nuovi e ha applicato la legge. Il giudice Morello cita la Cassazione: il riesame del trattenimento è un diritto garantito dalle direttive europee, direttamente applicabile anche senza una specifica norma italiana. Non è un capriccio giudiziario. È un obbligo. E la Cassazione, con la sentenza n. 22932 del 2017, aveva già stabilito che queste norme europee sono «self-executing», cioè si applicano automaticamente. Non servono leggi italiane che le recepiscano. E c’è un altro passaggio fondamentale: «In uno Stato di diritto solo in relazione agli stessi [concreti elementi di fatto] è possibile muovere specifiche contestazioni, articolare difese effettive e, da ultimo, svolgere un reale vaglio giurisdizionale che non sia svuotato dei suoi contenuti essenziali». Tradotto: senza prove concrete, il giudizio di pericolosità è aria fritta. E le prove concrete, in questo caso, non c’erano.
Qui sta il punto che sfugge alla polemica politica. Lo Stato di diritto non è un ostacolo alla sicurezza. È la condizione della sicurezza. Perché senza regole chiare, senza diritto di difesa, senza controllo giudiziario, chiunque può finire nella rete. Oggi Shahin, domani chiunque dica qualcosa che non piace al potere di turno. La premier dice che questo sistema «non funziona». Ma funziona eccome. Ha imposto al potere esecutivo di rispettare la legge. Ha garantito a un uomo il diritto di difendersi con prove concrete, non con sospetti. Certo, Shahin ha detto cose orribili che, chi scrive, ripugna. E infatti la procura ha valutato se fossero reati. Ha concluso di no.


Il paradosso del potere
C’è un paradosso in questa storia. Il governo attacca i giudici che «ostacolano» la sicurezza. Ma così facendo, mina proprio quello Stato di diritto che dovrebbe difendere. Perché se oggi accettiamo che un imam possa essere espulso senza prove concrete di reato, domani accetteremo che chiunque possa essere trattenuto per «pericolosità sociale» determinata da un decreto ministeriale. Senza processo, senza contraddittorio, senza garanzie. E se domani al governo ci sarà qualcun altro, e quel qualcun altro userà gli stessi strumenti contro chi oggi governa? I governi cambiano, le regole dello Stato di diritto restano.
Mohamed Shahin è tornato a Torino. I suoi avvocati hanno vinto il ricorso perché hanno dimostrato che le accuse non stavano in piedi. Il giudice Morello ha fatto il suo lavoro: ha applicato la legge, ha valutato le prove, ha deciso di conseguenza. Questo è esattamente quello che dovrebbe fare un giudice in uno Stato di diritto. Non compiacere, non seguire l’onda emotiva. Applicare semplicemente la legge. Come è accaduto con il ministro Salvini con la giusta assoluzione definitiva.