Secondo grado
L'avvocato Pittelli
Qualora il procuratore Nicola Gratteri avesse avuto bisogno di un’ulteriore tacca da aggiungere al suo cinturone di combattente, la corte d’appello di Catanzaro, che ieri ha emesso la sentenza del maxiprocesso “Rinascita Scott”, gliel'ha fornita. Benché nella lettura si sia sentito più volte pronunciare l’esclusione per molti imputati dell’aggravante del comma sei dell’articolo 416-bis e le conseguenti scarcerazioni, anche in appello è stata confermata la condanna dell’avvocato Giancarlo Pittelli. Certo, non agli 11 anni comminati nel primo grado, e neppure ai 14 chiesti dalla procura generale. Ma anche i sette anni e otto mesi per “concorso esterno”, con l’esclusione dell’aggravante del reimpiego dei proventi e la prevalenza delle attenuanti generiche, bruciano per la loro simbologia ambigua che, sulla pelle delle persone, sono di quelle che distruggono la vita.
Questo è comunque, e non è poco, il solo “bottino” che porta a casa il procuratore Gratteri, promotore di quel blitz del 19 dicembre del 2019 che avrebbe dovuto battezzarlo come il Falcone di Calabria. Assolto, a fronte di una richiesta di vent’anni di carcere, l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino. Condanna a due anni di reclusione per Giorgio Naselli, tenente colonnello dei carabinieri. La famosa “zona grigia”, anello di congiunzione tra le cosche della ‘ndrangheta, argomento principe delle tante conferenze stampa che hanno caratterizzato la permanenza del procuratore Gratteri in Calabria, ha ora un solo nome, quello di Giancarlo Pittelli.
Possiamo già immaginare la motivazione della sentenza che verrà depositata nei prossimi mesi. La immaginiamo come fotocopia di quella, intrisa di giudizio morale e di disprezzo professionale, della sentenza di primo grado. Perché l’attenzione si era concentrata da subito sul ruolo avuto da uno dei più brillanti avvocati di Calabria in quell’inchiesta sulla mafia del vibonese, che fu scintillante nel blitz del 2019 e più che appannata nella sentenza di primo grado di due anni fa, con 131 assolti su 338 imputati, molte pene dimezzate e l’ombra delle cosche allontanata in molti casi. Alla fine, nelle mani di Nicola Gratteri, ormai salpato e promosso al lido di Napoli e la più numerosa procura d’Europa, non restava che quella ciliegina su una torta ormai ampiamente sbocconcellata.
Lo scalpo dell’avvocato Pittelli, per il quale lui aveva chiesto 19 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, portandone a casa 11. Le richieste le aveva volute snocciolare una per una lui personalmente, il procuratore. Ma aveva inflitto l’inutile ultimo sgarbo al rivale-imputato in quell’ultimo giorno di agosto, quando ancora non era in viaggio per Napoli, non presentandosi in aula ad ascoltare Pittelli mentre diceva, non sono mai stato, non sono e mai sarò un mafioso. L’uno esibiva il proprio orgoglio, l’altro non gli concedeva la resa delle armi. Aveva preferito voltargli le spalle. Forse non era così sicuro del fatto che le giovani giudici del tribunale (dieci anni di carriera in tre) fossero portatrici della stessa “cultura della giurisdizione” di un procuratore che si era inchinato alle riforme Cartabia ironizzando e ammiccando mentre diceva, nelle conferenze stampa, oggi abbiamo arrestato presunti innocenti.
Ma il giorno della prima sentenza non era stato proprio quello del trionfo, per il procuratore. E tutto sommato non lo è neppure la seconda. Così, quel che era stata l’aula bunker di Lamezia costruita appositamente per il Maxi, con la presenza di oltre 300 imputati e 600 avvocati, le migliaia di pagine nelle indagini preliminari e tre anni di udienze, era finita nel primo grado con la sola condanna dell’imputato eccellente e il 40% degli altri con l’assoluzione, e nell’appello con la sostanziale scomparsa della “zona grigia”.
Nelle scorse settimane, mentre gli avvocati Guido Contestabile e Giandomenico Caiazza svolgevano le loro arringhe in favore dell’imputato Pittelli, una decina di persone era la consistenza delle presenze in aula. Come ogni giorno. Ormai arrugginita l’insegna stradale che indica la direzione per arrivare all’aula-bunker come fosse una delle meraviglie di Calabria, e l’aula tristemente allagata al primo temporale che aveva costretto a spostare baracca e burattini (è un modo di dire, eh) a Catania. Molto comodo e soprattutto edificante per il diritto alla difesa. Così era stato il tramonto del processo “Rinascita Scott” mentre si avviava alla seconda sentenza. Ormai il lavoro del procuratore Gratteri era stato fatto ed è storia del passato, i modestissimi risultati raggiunti non scalfiscono l’immagine di un protagonista dei talk, che ha già presentato il suo ventitreesimo libro ed è diventato la star della sinistra e di quella Anm che lui non ha mai frequentato, per la campagna del no al referendum.
Amareggiato ma molto deciso era stato nella sua arringa l’avvocato Caiazza, nel constatare come la sentenza di primo grado, soprattutto nelle sue motivazioni, si fosse limitata a recepire, «persino nel dettaglio», gli argomenti dell’accusa. «Nel corso del dibattimento - avevano scritto le giudici - è emersa un’assoluta e sistematica messa a disposizione del Pittelli nei confronti di membri del sodalizio criminale». Ed era stato l’avvocato Contestabile a ricordare che «sarebbe bastato leggere i vari provvedimenti della Cassazione e del riesame, per assolvere l’imputato». È vero, nel corso dei tre anni di detenzione, tra carcere e domiciliari, dell’avvocato calabrese, in due casi la Cassazione e in un’altra il Tribunale di Catanzaro, avevano escluso la sussistenza del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. I cui requisiti i giudici dell’alta corte avevano anche precisato in modo molto puntuale. Occorre prima di tutto, avevano scritto due diverse sezioni, che esista un nesso di causalità tra il comportamento e la volontà di favorire la cosca. Inoltre, avevano precisato, il comportamento deve consistere nell’aiuto «concreto, specifico, consapevole e volontario». Solo in presenza di questi requisiti esiste il reato di concorso esterno. E non è il caso delle abitudini, del modus operandi, dell’avvocato Pittelli.
Ma le toghe, quelle dell’accusa e quelle chiamate a giudicare, avevano fatto orecchio da mercante. Parevano più utili per la decisione alcune vociferazioni su un legale che si vantava di conoscere magistrati suoi amici che avrebbero potuto “aggiustare” i processi, piuttosto che intercettazioni mal riportate, o tagliate in modo da capovolgere il senso della conversazione. In certi processi, si sa, tutto fa brodo. Ma al centro dell’accusa, che si era ritrovato anche nelle motivazioni della sentenza, c’è un’idea che va a sfiorare la morale, la sociologia, l’etica professionale. Pare esserci soprattutto il ruolo stesso dell’avvocato, e l’articolo 24 della Costituzione che garantisce il diritto alla difesa. Secondo le toghe dell’accusa e del giudizio, in totale sintonia, l’avvocato Pittelli avrebbe travalicato l’uso di quel diritto, mostrando di essere, prima che un difensore, un “punto di riferimento” per le associazioni mafiose. Addirittura vengono usati una terminologia, dei concetti, per definire il rapporto tra il legale e i suoi assistiti, quanto meno offensivi.
Il pm, aveva detto l’avvocato Caiazza nella sua arringa, ha snaturato l’attività difensiva, portandola fuori dal rapporto professionale e trasformandola in favoreggiamento. Si mette addirittura in dubbio che non esistano formali incarichi professionali. Prendiamo il caso del boss Luigi Mancuso, di cui l’avvocato Pittelli è lo storico difensore. Veramente si può pensare che non esista la prova formale che documenti il mandato difensivo? Si arriva a supporre che il legale non volesse aiutare tanto il proprio assistito, quanto l’intera cosca. Se l’assistito chiede un incontro con il legale, in realtà “convoca” qualcuno ai suoi ordini. E se si fa spiegare il senso dei provvedimenti del magistrato, in realtà “chiede conto”. «Perché bisogna sporcare» in questo modo l’attività professionale? Lo chiede in modo accorato l’avvocato Caiazza. Inascoltato, forse perché la simbologia a volte è più importante della consistenza dell’accu - sa. «Contro Giancarlo Pittelli - ha commentato dopo la sentenza - non c’è nulla. Non qualcosa di incerto, una situazione dubbia, qualcosa di controverso. Semplicemente nulla. Il vuoto probatorio assoluto. Speravamo ne prendesse atto, come sarebbe stato suo dovere, la Corte di Appello. Lo farà la Cassazione, se le regole del processo penale hanno ancora un senso in questo Paese».